Zamboni-o-interview: l’appassionato che gradirebbe i Winnipeg Vipers

Tra le pieghe delle festività, ho voluto diventare una specie di indagatore del superfluo tra i pochi contatti che seguono la pagina X/Twitter legata a questo blog. Quarantuno misere anime che non hanno ben presente che pesci pigliare, quindi lanciano l’amo appena qualcuno offre dei minimi contenuti riguardanti uno sport che non viene seguito nemmeno dai parenti di chi quello sport lo pratica. Di questi quarantuno alcuni sono fissi da anni, come quando apre un centro commerciale ma te, giusto per spirito di appartenenza, continui a prendere la merce nel negozio del quartiere. Svenandoti, pagando a prezzo maggiorato ma contento di aver sostenuto una piccola realtà. Voglio vedermi così, come una piccola realtà sostenuta da poche persone. Così è, questa è la verità, ovvio che vorrei venire seguito da illustri aristocratici dello sport e scrivere giornalmente dei trafiletti su quotidiani di una certa caratura. Di questa piccola cerchia, ultimamente sono stato catturato da una persona in particolare, anche perché una delle poche che mi hanno contattato privatamente per produrre dei graditissimi complimenti. Sorpreso dall’evento, mai mi sarei aspettato delle parole a me rivolte per dei prodotti del genere, è sorto un semplice dilemma: “Se questo apprezza quello che faccio, così stupido e dettagliato nella sua inutilità, vuol dire che non è poi così differente nel modo di pensare. Contattiamolo, vediamo cosa può raccontarmi”. Credo sia importante, quasi vitale, dare voce a tutti, ogni persona appassionata a qualcosa di minuscolo ha molto da raccontare, è una convinzione che possiedo da svariato tempo. Così mi sono ritrovato a parlare con Giuseppe, poco più che trentenne ed una marcata passione nei confronti dei Winnipeg Jets.

Spiegami, inizio con il fare sempre una banale domanda: come mai segui tale sport? Cosa ti ha portato a seguire un mondo sportivo così piccolo?

Sono nato e cresciuto nella periferia milanese ed il primo ricordo hockeystico riguarda le radiocronache dei Vipers trasmesse da Radio MilanInter, telecronache che all’inizio ascoltavo per pura casualità in attesa che si iniziasse a parlare di calcio. Con il passare del tempo catturarono la mia attenzione, il merito principale fu di un telecronista bravissimo, di cui purtroppo non ricordo il nome. Parlava di disco, bastoni, linee con voce roca e passione trascinante. Per me, bambino cresciuto a pane e calcio (Kakà come Luca Ansoldi, per dire), era la scoperta di un nuovo mondo. Passa del tempo e negli anni dell’adolescenza inizio ad andare all’Agorà, con anche una certa assiduità, nonostante i gloriosi anni dell’hockey milanese fossero già tramontati. Erano gli anni in cui si vociferava di un clamoroso passaggio in KHL (qua dovrebbe esserci uno stacchetto comico, tipo due passi di tip tap ed una caduta sul palco) ma poi, alla fine dei conti, si continuava a giocare contro il Valpellice (c’è da dire che all’epoca era pure una bella squadra, si saranno offesi in Piemonte). Del risultato mi importava poco, andavo in gruppo con di amici che non avevano mai indossato un paio di pattini e ci si andava per fare casino (il famoso retaggio calcistico), bere qualche birra annacquata a buon mercato (ora devi fare un mutuo ma la birra resta annacquata).

Da Milano a Winnipeg. Due realtà completamente differenti, con le dovute proporzioni: una metropoli ambita ed una città canadese che, per i parametri loro, ha le sembianze del piccolo mercato.

La passione per l’hockey d’oltreoceano e i Jets è arrivata dopo, parecchio dopo, quasi per caso. Qualche anno fa divorai in pochi giorni La versione di Barney di Mordecai Richler (edito da Adelphi in Italia, un must), dove il protagonista, nato e cresciuto a Montreal, è letteralmente ossessionato dai Canadiens, tanto da mollare, in un episodio memorabile del libro, la propria festa di matrimonio per andare a vedere la gara decisiva di Stanley Cup (guarda il caso, si era iniziato l’articolo scherzando sui Canadiens ed ora ritornano). Quel libro mi fece scattare la molla e, approfittando del tanto tempo libero che la vita universitaria mi offriva, iniziai a seguire la NHL in maniera un filo scostante e a guardare documentari storici su quella lega (andavano molto sul game center, ora è già tanto se resta in piedi l’app). Mi imbattei per caso in questa piccola città del Canada che, fredda e piena di neve, nutriva una viscerale passione per la propria squadra di hockey (come Torre Pellice, questa è fine ironia). Vidi dei video di Teemu Selanne (una leccata ai baffi, sempre doverosa) e dei trionfi in WHA della spettacolare hot line di Hull-Hedberg-Nillson (quando gli svedesi non sapevano ancora che oltreoceano sarebbero stati considerati come pepite d’oro). Mi innamorai dello spirito working-class della gente di Winnipeg che lottò per riavere i propri Jets, nonostante lo small market che più small non si può (un sentito ringraziamento al disastro messo in piedi ad Atlanta).

Giusto per capire, perché al giorno d’oggi regna questo problema di poca attenzione e pazienza, un interesse legato agli highlights o pià maturo, più dettagliato, più viscerale?

Come già detto, sono sempre stato appassionato di storia dell’NHL, quindi il mio immaginario me lo sono costruito sia su partite contemporanee che su video d’epoca e libri. I Jets della WHA per me sono un mito (come gli 883). Da quattro anni a questa parte mi guardo il 90% delle partite, quelle che non riesco a guardare in diretta le recupero all’alba o il giorno successivo (si trapela dal profilo X/Twitter di Giuseppe, con un bel pensiero quasi giornaliero sulla squadra). Grazie a X/Twitter e Reddit sono in contatto con stampa locale e qualche tifoso di Winnipeg, con il quale sono diventato una sorta di amico di penna.

Capisco, è un legame recente quello con Winnipeg. Diciamo da quando il Milano è praticamente scomparso, con quel velo di tristezza ed ironia che ne segue. Non essendo mai stato in grado di sbilanciarmi su un vero tifo d’oltreoceano, spiegami come fai a dire: “Sì, dannazione, tifo Jets”.

E’ una cosa assurda, me ne rendo conto. Tifare una squadra a migliaia di km di distanza è paradossale e pretenzioso, contando che non ho alcun legame con quella città. Alla fine è un’appropriazione culturale eppure non ci posso fare niente, me ne sono irrazionalmente innamorato. Faccio fatica comunque a dirmi tifoso, anche perché in ogni ambito sportivo penso si debba sostenere la squadra della propria città, però allo stesso tempo non posso mentire a me stesso. Per il tempo che ci investo, con estrema passione, sono un tifoso dei Jets.

In questa estrema passione, in generale per l’hockey su ghiaccio, quali sono i tre principali elementi che cerchi guardando una partita?

  1. L’equilibrio tra ruvidezza ed eleganza. L’hockey è unico perché contiene entrambi gli elementi, amo quando sono bilanciati ed una squadra o un giocatore riesce con il suo gioco a sintetizzare gli opposti.
  2. L’alchimia di una linea o di un reparto. Se devo scegliere se guardare una partita propendo sempre per una bella squadra rispetto alla grande individualità decontestualizzata. Guardo più volentieri i Coyotes (molto belli quest’anno, nella loro completa pazzia) che Connord Bedard, giusto per fare un pratico esempio.
  3. I goalies. Per me è un ruolo splendido ed assurdo, la grande prestazione di un goalie mi esalta più di un hat-trick (più Hellebuyck e meno Scheifele, a meno che non si tratti di vincere la Stanley).

Chiudendo il libro, immaginando di sfogliare l’ultima pagina, cosa ti piace di questi Jets? Prova a convincerci nel seguire questa squadra, così esaltante negli attuali risultati.

Questa squadra non subisce più di tre reti in una partita da inizio Novembre (dentro i regolamentari), nonostante abbia uno dei peggiori penalty killing delle lega. Un risultato, quello di non prendere tante reti, merito di un lavoro difensivo di tutta la squadra, di tutte le linee. Il forecheck è eccellente, trainato da un Adam Lowry esemplare per carisma e attitudine. Offensivamente abbiamo il miglior goal differential della Western Conference e la produzione offensiva è ben distribuita in tutte le linee, pur avendo fatto a meno di Vilardi per più di un mese (appena arrivato dai Kings e con un’ottima impressione estiva) e adesso di Kyle Connor (la cosa più vicina a Gesù Cristo in questo piccolo mondo). In generale penso che sia una squadra solida, dove gli intangibles possono fare la differenza. Il cambio di mentalità è avvenuto con le firme in off-season di Scheifele e Hallebuyck (eccoli, sono tortati questi cognomi) che hanno ribaltato la narrazione del nessuno vuole giocare a Winnipeg. Wheeler e Dubois, giocatori che erano stufi di giocare a Winnipeg ed intossicavano l’ambiente, hanno lasciato spazio a giocatori che hanno subito sposato la causa.

Fine dell’intervista, torna a parlare il pirla che gestisce questo blog.

Tra parentesi, come si è potuto intuire, presenti delle istintive riflessioni di chi vuole trovare sempre un lato comico a tutto, un filo satirico. Giuseppe sembra avere una naturale e genuina passione verso tale sport, priva di quella mania di mettere tutto su un lato personale e schierarsi senza voler vedere oltre la siepe di casa. Lodevole, come la sua volontà e gentilezza nel rispondere a domande e lasciarsi andare con i pensieri. Con la speranza di aver offerto un gradevole pezzo a chi questo sport lo ama, alla prossima ed eventuale confessione di qualche altro/a appassionato/a. Il prete saluta, chiude la porta.

Nel caso si volesse parlare di Winnipeg Jets con la persona in questione, lascio il contatto di X/Twitter: @barbabep. Con la speranza di non ricevere un denuncia.

Zamboni-O-Interview: uno sguardo alla carriera di Brian Ihnacak

Provare non nuoce, quindi lo scorso Gennaio cercai di contattare l’ex Pontebba e Valpellice per un’intervista. Non ci fu alcuna risposta e la cosa fu del tutto normale, niente per cui scandalizzarsi. Contando che in quel periodo era ancora senza squadra, infatti la trovò pochi giorni dopo, mi promisi di riprovarci in un secondo momento non ben precisato. A Marzo succede l’impensabile: un virus blocca il paese e nel giro di qualche settimana quasi l’intero pianeta. Una quarantena casalinga per molti, dove la quotidianità subisce un ridimensionamento e dove si puliscono anche le zone più remote dell’abitazione. Sarà stato pulendo una di quelle zone che Brian Ihnacak è stato in grado di ricordarsi del messaggio ricevuto a Gennaio da un mister nessuno, appassionato dello sport da lui praticato e con un blog per nulla pubblicizzato. Arriva la primavera, finisce il mese di Marzo e ad Aprile, con due semplici pollici alti, comunica a mister nessuno la propria disponibilità al fine di essere intervistato.

Uno degli aspetti più intriganti della sua persona è legata alla figura del padre (Peter Ihnacak, otto anni da giocatore con i Maple Leafs, quindici anni di scouting tra Maple Leafs e Capitals). Erano gli anni ’80, tempi brutti nell’est europeo, e suo padre fu costretto a continuare a giocare ad hockey anche contro la sua volontà. Se la storia non fosse andata così, quasi sicuramente non sarebbe andato a Toronto e non avrebbe messo al mondo il Brian che noi tutti conosciamo. Probabilmente sarebbe nato un Brian completamente europeo che avrebbe fatto la rotta inversa: dall’Europa agli States, invece che dagli States all’Europa. Magari ora giocherebbe in NHL. Non ha mai fantasticato su questo scenario? Com’è stata la sua infanzia in terra canadese?

Sinceramente, non ho mai pensato a tale scenario. Mio padre fu molto orgoglioso di poter giocare oltreoceano e farmi nascere in quel luogo. Giocava per la squadra più famosa del mondo e, da bambino, questa cosa mi rendeva molto felice ed orgoglioso di farne parte. Risulta difficile spiegarlo a parole ma non cambierei la mia infanzia con nient’altro. Paradossalmente, il mondo hockeystico a Toronto è molto piccolo ed ho intrapreso un avvicinamento a tale sport in modo del tutto naturale. Quello che volevano anche i miei genitori.

Per chi non ha avuto l’opportunità di vedere giocare nessuno dei tre Ihnacak (c’era pure lo zio Miroslav, una lunga carriera da giocatore e con una tappa anche oltreoceano), sarebbe in grado di trovare dei punti di comune tra di voi? Suo zio era mancino, a differenza di lei e di suo padre. Anche dopo aver appeso i pattini al chiodo, hanno dimostrato di voler mantenere un legame viscerale con questo mondo. E lei, come si vede fuori dal ghiaccio?

Direi che il fattore che maggiormente ci collega è legato all’intelligenza/conoscenza/comprensione del gioco. Il modo in cui hanno giocato è quello che si è distinto di più e la stessa cosa vale parlando di me: sapere in anticipo cosa sarebbe successo dopo, essere in grado di prevedere il gioco. Una volta finita la carriera da giocatore vorrò sicuramente proseguire il sentiero in questo mondo sportivo, seguendo uno dei seguenti ruoli: allenatore, dirigente, agente o preparatore.

Legato alla figura dello zio Miroslav è anche il suo approdo in Europa nell’ormai lontano 2007. In quell’anno approdò al Kezmarok, in Slovacchia, un team allenato proprio da suo zio. Quali sono i motivi che l’hanno spinta a passare l’oceano, oltre a mere questioni famigliari? Dopo l’università (Brown University, localizzata a Providence) voleva mettersi in discussione lontano dagli States? Nel giro di quattro anni, dal 2007 al 2011, farà ben due volte il viaggio tra continenti e cambiando nove divise. Risulta essere un tipo difficile da gestire?

Il modo in cui giocavo nell’adolescenza e nei primi tempi all’università è come ho giocato negli ultimi anni in Europa. Avevo avuto dei problemi famigliari che mi tennero parecchio lontano dal ghiaccio durante il terzo anno (2005/06) alla Brown University. Dopo quell’inconveniente, a livello mentale non ero più quel tipo di giocatore. Non avevo confidenza, ero insicuro e non mi piacevo. Nel mese di Settembre del 2007 andai al camp dei Pittsburgh Penguins: mi avrebbero preso ma per mandarmi giù nelle minors. Mi dissero che erano contenti ma, seguendo il mio stesso pensiero, non capivano perché non fossi lo stesso giocatore di prima. Ero così arrabbiato con me stesso che mi dedicai, anima e corpo, per tornare quello che ero. Quindi, andare in Slovacchia, dallo zio, fu una scelta molto facile perché sapevo avrebbe potuto aiutarmi, infatti lo fece. Fu un’ottima stagione quella del 2007/08 ed una volta finito il campionato mi sentivo pronto per tornare negli States. La confidenza bisogna coltivarla di continuo e lo stesso vale per la voglia di stimolare i propri limiti. Una volta tornato negli States continuavo a non essere lo stesso di prima, anche solo quello che aveva giocato nella precedente stagione (in Slovacchia). Fu un periodo molto difficile e decisi di ritirarmi dall’hockey.

Però nel 2011 si presenta l’opportunità italiana. Approda a Pontebba, in un anno in cui mise in piedi un’ottima formazione per il livello del campionato italiano: De Vergilio, Goebel, Nicoletti, Waddell, Iannone, Petizian, ecc. Pur essendo approdato a Pontebba, un luogo dimenticato da Dio e che potrebbe stimolare il suicidio, dal 2011 gioca in pianta stabile nel suolo europeo. In tre anni divenne uno, se non il, migliore giocatore della serie A. Poi, nella prima parte del 2014, un fulmine a cielo sereno: abbandonò l’Italia. Cosa ricorda di quel periodo italiano, oltre alla moglie che vede ogni giorno?

Il caso o la fortuna mi portò a Pontebba, quindi cambiai idea per quanto riguarda il ritiro e decisi di continuare a giocare. Destinazione Italia. Questo, come è noto, fu il punto determinante per il proseguimento ed il futuro della mia carriera. Fu la prima volta che giocai con la mente libera, senza essere sotto stress, e con degli ottimi giocatori che mi stimolavano ogni singolo giorno. Una cosa molto importante è che eravamo pure in pochi, quindi dovevo giocare molto e tutte le partite. Fu, veramente, la prima realtà che mi aiutò a tornare a dove volevo essere come giocatore. La stagione (2011/12) andò così bene che prima della deadline ricevetti un’offerta da parte del Düsseldorfer (nella precedente stagione, 2010/11, arrivò in semifinale) per andare in DEL. Probabilmente quegli anni, in Italia, furono quelli più divertenti della mia carriera. Ho creato delle amicizie di lunga data, ragazzi provenienti da varie parti del mondo che hanno avuto un impatto su di me sia come giocatori che come persone. Quando mi sposai, due anni fa, ben dieci giocatori di quei tempi tornarono in Italia per presenziare al matrimonio e questo la dice lunga. Abbiamo (con la moglie) una casa nella zona della Val Pellice e parlando con gente di quegli anni, dico sempre che non avrei mai immaginato di approdare in una città italiana in cui la passione sportiva dei presenti ti fa sentire come a casa. Ogni volta che trovo persone con una maglia dei Maple Leafs o una felpa dei Canadiens, mi ci vuole sempre un attimo per ricordarmi dove effettivamente mi trovo.

Domanda pericolosa. Partendo dal presupposto che un giocatore è un lavoratore e che il lavoratore più soldi prende, meglio sta, in Italia furono tutti molto contrariati per quanto riguarda il suo addio alla nazionale. Girarono rumors legati ai soldi, all’alcool ed al poco legame verso i colori della nazione. Bisogna essere onesti: la nazionale è un’ottima vetrina ed i campionati del mondo ancora di più. C’è qualche problema se qualcuno utilizza questa vetrina, specialmente se il giocatore non si sente italiano o almeno non in un modo così viscerale? Siamo italiani, siamo stupidi e ce la prendiamo per delle stronzate: che sia uno dei motivi per cui il nostro movimento hockeystico fa così pietà? Pur avendo una moglie italiana, lei non è più tornato in Italia come giocatore. Non possiedo una sfera di cristallo ma se il problema non fosse derivato solo dai giocatori?

La nazionale italiana mi era stata venduta come un’ottima possibilità per mettermi in vetrina come giocatore. All’inizio non era qualcosa che volevo fare, in primis perché sono canadese. Alla fine l’idea di rappresentare l’Italia fu una scelta facile, perché potevo giocare nelle migliori competizioni mondiali e contro i migliori giocatori. Disputai un ottimo mondiale (quello del 2014), anche se le statistiche affermano il contrario (0 punti in 7 partite). Solo in un secondo momento realizzai che, pur avendo disputato delle competizioni internazionali molto importanti, tutto quello non aiutava la mia promozione. Alla fine si perdeva di continuo, si lottava per non retrocedere e quel panorama non attrae più di tanto scout o allenatori. Nonostante ciò fui molto grato per l’opportunità ed avrei fatto tutto il possibile per aiutare l’hockey italiano. Per fugare ogni dubbio ci tengo a precisare che non ho guadagnato alcun euro durante la mia presenza in nazionale. Anzi, non pensavo nemmeno si potessero ricevere dei soldi per rappresentare la propria nazione. Una volta incappai in un inconveniente, insieme ad altri giocatori, arrivando in hotel troppo tardi. Ho e abbiamo commesso un errore, ci siamo presi le nostre responsabilità. Succede. Dopo il 2014 continuai a giocare in una nazionale che aveva deciso di puntare solo sugli italiani, un punto di vista che condividevo e condivido. A dirla tutta, mi hanno sempre chiesto se volessi tornare come uno degli “italos”. Anche dopo l’addio di Stefan Mair (2016/17) la federazione ha continuato a chiamarmi per sentire se ero disponibile a tornare; per dire, anche l’autunno scorso ero in contatto con loro. Penso che la FISG abbia buone intenzioni e che sia composta da buone, brave e competenti persone in grado di aiutare il movimento. Quello che considero sbagliata è la direzione intrapresa, ignota. Ci sono molti paesi che avevano un movimento come quello italiano, se non peggiore. Penso alla Francia, che quando giocavo in Italia aveva un massimo campionato nemmeno paragonabile a quello italiano, mentre ora sta facendo passi da gigante. Basta guardare cosa ha fatto l’Austria: ha messo nel proprio taschino dei jeans l’Italia, visto che le squadre della vecchia serie A fanno quasi tutte parte della seconda lega austriaca. In un certo senso, penso che il solo Bolzano è l’unica società in grado di tenere il movimento italiano ancora a galla. Giocano contro le migliori squadre austriache (e non solo), sono sempre competitivi e questa è una gran cosa.

In quasi vent’anni di carriera è stato in grado di toccare dieci differenti competizioni: dalla NCAA alla serie A, dalla CHL all’Allsvenskan. Focalizzandosi solo sulle avventure europee, sarebbe in grado di spiegarci le maggiori differenze tra i campionati in questione?

Molta gente mi pone questa e, come hai detto, essendo un sacco di anni mi è difficile ricordarli tutti. Posso affermare, senza ombra di dubbio, che il tipo di gioco affrontato in Italia è stato quello più divertente della mia esperienza europea. Ad ogni compagno di squadra, nuovo o vecchio che sia, consiglio sempre di andare a giocare almeno un anno in Italia prima di appendere i pattini al chiodo: la cultura, le persone ed uno stile di vita che non trovi da nessun’altra parte. Andare in Svezia fu una sfida e trovai molta difesa, troppa difesa, ed un gioco robotico. I giocatori si muovono seguendo una linea retta, sono rigidi e si preoccupano di più su quanto lavori duro. Perdi molta intelligenza e spontaneità nel loro gioco, però senza ombra di dubbio confermano di essere i migliori. In terra norvegese hanno alcune squadre che possono competere a livello europeo ma non hanno profondità di squadre d’alto livello. Si stanno impegnando per rendere più piccole tutte le superfici di gioco, stile NHL, ed è una cosa che reputo in anticipo sui tempi e straordinaria. Quando approdai nel campionato slovacco nel 2007 era un ottimo campionato, tanto che c’era pure Zigmund Palffy (713 punti in 684 partite in NHL, dal 1993 al 2006), mentre ora sta vivendo dei problemi similari a quelli italiani. Stanno migliorando, pian piano, però le giovani leve non hanno la stessa qualità di quelle del passato. Il campionato ceco è il migliore in cui ho giocato: si gioca sempre con il loro vecchio stile tecnico e di controllo, però penso che la grande differenza rispetto agli altri paese è che possiedono i migliori ragazzi locali dell’intero continente. Per tirare una somma, le differenze tra i vari campionati sono minime e la più grande differenza è dettata dalla disponibilità di quante linee di qualità puoi avere. In Svizzeria e Svezia sono molto bravi a sviluppare i propri giovani, inserendoli in linea e costruendo della fiducia. A livello prettamente personale, ho avuto l’opportunità di vivere bellissimi momenti durante la carriera: ho giocato di fronte a 22.000 persone a Praga; sono passato per Berna, Malmö, Hradec Kralove, Frölunda ma anche la stessa Milano. Nella città di Hradec Kralove, dove giocai nella stagione 2015/16, i tifosi erano così arrabbiati per il mio addio che crearono uno striscione, raffigurante me e Giuda, che copriva un quarto dello stadio. Si dovrebbe trovare in qualche video di YouTube.

Il web parla e c’ha detto che lei ci tiene molto a fare dei collage video delle proprie stagioni. Offre l’impressione di essere l’agente di se stesso, di essere un tipo sicuro come lo sembra sul ghiaccio. Lei ha sempre dato l’impressione di essere un giocatore anarchico, difficile da gestire a livello tattico, ma nelle serate in cui è in piena confidenza un giocatore di indubbio valore grazie alla propria tecnica. Come già detto ha cambiato molte squadre e solo a Torre Pellice è rimasto quasi due stagioni complete, anche per ragioni sentimentali. Preferisce girare il mondo, mettersi in discussione, o fa fatica a creare un legame con un singolo posto? Considerando che suo padre fa lo scout, secondo lei come venderebbe un giocatore come lei?

Vorrei precisare che mio padre non è mai stata una persona che mi ha aiutato a trovare una squadra. Ha sempre creduto che dovessi farlo da solo, come l’avevano fatto lui e suo fratello. Durante la carriera sono stato fortunato di trovare squadre che, dopo il primo anno alle loro dipendenze, mi hanno sempre offerto di tornare. Mi è sempre stato chiesto il ritorno, anche con contratti di due o più stagioni. L’obiettivo che ho perseguito, fin da quando sono arrivato in Europa, è stato quello di mostrare di che pasta sono fatto e di puntare sempre più in alto. Volevo (lo vuole ancora?) puntare alla KHL e firmare un contratto che mi legasse più anni ad una società è sempre stato l’incubo più grande. Per quanto riguarda la KHL ricevetti un’offerta nel 2016 ma in un posto in cui non mi sarei trovato bene a vivere, quindi la rifiutai ed andai allo Sparta Praga. L’altro fattore che non mi ha fatto firmare contratti di più lunga durata è che, nelle varie esperienze, ho avuto la fortuna di rapportarmi con diverse culture, amici e compagni di squadra. Hai parecchio tempo in una carriera da giocatore, quindi ho voluto sfruttare il tempo nel migliore dei modi. Nella stagione appena terminata, a stagione in corso e dopo dieci anni di assenza, ho deciso di tornare in Slovacchia. Un’opportunità per rivedere parenti e presentarli a mia moglie. Se avessi la testa che ho ora probabilmente avrei fatto diversamente, ma l’intenzione cardine era quella di mettermi continuamente alla prova ed imparare il più possibile.

Sempre collegandoci alla sua anarchia, vorrei porle un’ultima domanda: nel caso le venisse offerta una panchina da allenatore, come farebbe giocare la propria squadra?

Ho imparato molto dal gioco ma credo di avere anche molto da insegnare. La prima cosa, quella più importante, è avere rispetto per i giocatori che hai a roster, sia come persone ma ancora di più come sportivi. Ogni giocatore è differente, ha le proprie caratteristiche che ti può offrire, e tutto quello che possiedi risulta essere utile per il successo di una squadra. L’hockey su ghiaccio è uno sport veloce, sempre più veloce, quindi devi avere una struttura su cui appoggiarti. Però, all’interno di questa struttura, ti servono dei giocatori intelligenti in grado di creare all’interno della struttura stessa. Come si è capito, la cosa che reputo più importante è l’intelligenza/la visione ed è l’unica qualità che non si può insegnare. Adoro le squadre che giocano con il puck, fanno possesso e non voglio assolutamente perderlo. Devi avere il disco per vincere le partite, quindi perché darlo via o regalarlo all’avversario? Ovviamente, per vincere, devi avere un giusto mix di cattiveria, abilità e velocità di esecuzione. Vista la vastità di aspetti presenti nel gioco, credo sia giusto coinvolgere il maggior numero possibile di giocatori, tutti con le loro caratteristiche.

Ringraziandolo per la disponibilità, nel saluto finale ci tiene a precisare quanto segue:

Attualmente vivo in Italia, in zona Val Pellice, e provo ad aiutare a crescere i giovani giocatori del luogo

Zamboni-O-Interview: alcune parole con Stefan Mair

A distanza di quasi un anno, torna l’appuntamento con Zamboni-O-Interview. In questa seconda uscita si è stati in grado di raggiungere Stefan Mair, attuale allenatore del Thurgau (Swiss League, seconda lega svizzera) e con un curriculum di una certa elevatura: quattordici stagioni da giocatore nella penisola italiana ed una in più per quanto riguarda il ruolo di allenatore, dal 2012 sempre distante dal paese natio se si esclude l’esperienza con la nazionale senior. Una personalità, classe 1967, sempre disposta a mettersi in discussione e che fa del costante studio, abbinato ad una voglia di seguire il mutamento di tale sport, il proprio mantra.

Nel corso di più di un decennio di carriera da allenatore si è guadagnato l’etichetta di coach competente, sempre interessato allo studio e pronto ad ogni sfida. Delle doti che sembrano avere offuscato la sua carriera da giocatore, durata quattordici anni ed in grado di toccare realtà cittadine molto diverse tra di loro. Ha giocato con Jari Kurri a Milano, Jim Corsi a Varese e Vladimir Yeryomin a Brunico. Vista l’ampiezza di carriera sul ghiaccio, ci sono stati dei momenti da giocatore che hanno drasticamente influenzato o cambiato la sua visione del gioco? 

Diciamo che aver avuto la possibilità di poter giocare due anni a Milano e poi quattro anni a Varese, mi hanno permesso di cambiare la prospettiva di come vivere la carriera da hockeyista. Un cambio di prospettiva che ho percepito pure nel mio passaggio da Cortina d’Ampezzo a Villingen-Schwenningen in Germania (dove allenò le Schwenninger Wild Wings dal 2012 alla fine del 2014, conquistando una promozione in DEL alla prima stagione). Mettersi in discussione ed affrontare nuove sfide ti fanno maturare molto, anche come persona. Sono molto grato a chi mi ha dato la chance di fare il professionista da giocatore e soprattutto chi ha creduto in me come allenatore. In primis vorrei ricordare Hansjörg Brunner, che è stato il primo a darmi una chance di allenare una squadra senior come giovane allenatore italiano.

In Italia siamo abituati a non ricordare i meriti di terzi, anche se sono cittadini italiani, quindi è giusto ricordare che lei è stato in grado di ritagliarsi un ruolo degno di nota fuori dai confini italiani. La prossima sarà l’ottava stagione lontano dall’Italia (tralasciando l’esperienza in nazionale) e la quinta nel cantone di Thurgau, una zona che possiamo vedere come una sua seconda casa. Può essere considerata una domanda banale, ma nelle sue avventure all’estero quali sono state le maggiori differenze riscontrate se rapportate al suo ruolo di allenatore?

Per prima cosa, la più grande differenza la noti nella mentalità della gente. In Germania non ho faticato molto, essendoci giocatori abituati ad un approccio più diretto, schietto. In Svizzera, soprattutto all’inizio, ho faticato molto perché non sono abituati ad un confronto, a delle critiche dirette. Ho dovuto adattarmi alla loro mentalità. Per quanto riguarda il gioco, diciamo che in Germania è molto simile alle minors d’oltreoceano, anche per via della presenza di molti giocatori d’origine canadese. In Svizzera, invece, ho notato una velocità superiore e la tecnica individuale dei ragazzi è mediamente superiore a quella dei tedeschi. Tatticamente si nota che ci sono tanti allenatori svedesi e finlandesi in National League e Swiss League. Devi essere preparato e in un piano prettamente tattico la lega svizzera è sicuramente molto impegnativa.

Leggendo la biografia di Miroslav Frycer fa sorridere il fatto in cui sottolinea la differenza del mondo NHL tra gli anni ‘80 ed il giorno d’oggi. Dalla dieta al ruolo dell’allenatore, dal gioco in balaustra (“Ci pensavi due volte prima di andarci”) agli allenamenti: sembrano due mondi diversi, due sport differenti, due visioni agli antipodi. Lei è nel mondo hockeystico senior da più di trent’anni e l’orologio l’ha visto girare molte volte. Il gioco, in determinati ambienti, ha raggiunto livelli di velocità in cui si fa anche fatica a ragionare. In alcuni casi vengono riproposti concetti basilari che sembrano essere il solo antidoto contro questa perenne velocità, per dire penso all’attaccante che a giro rientra basso in ogni singola azione degli Islanders di Barry Trotz. Lei convive bene con queste mutazioni? Si adatta in fretta, è sempre disposto a cambiare idea o cerca di adattare la propria visione al momento storico?

Appena mi sono reso conto di volere far l’allenatore è nata in me la voglia di imparare e di tenermi aggiornato. Cerco di frequentare almeno un simposio d’allenatori all’anno. In primis, per vedere e imparare nuove tendenze. In seconda battuta, anche per allargare il mio network di conoscenze, essendo un aspetto molto importante se ti servono informazioni utili su determinati giocatori. Ho la fortuna di conoscere diversi colleghi svedesi, finlandesi ed assistant coaches che lavorano in NHL. Sono tutti molti disponibili a passarmi del materiale. Direi che sono cambiato molto durante questo mio viaggio da allenatore attraverso tre campionati e l’esperienza fatta con la nazionale. (Allargando la domanda, gli è stato chiesto cosa sta a significare “sono tutti molto disponibili a passarmi del materiale”) Come già detto cerco di frequentare un simposio all’anno e la scorsa estate, per la prima volta nella mia vita, ho presentato una relazione alla Roger Neilson Coaching Clinic in quel di Windsor (Ontario). E’ da otto anni che la frequento. Oltre duecento allenatori di tutto il mondo, soprattutto nordamericani, ogni anno si trovano e ascoltano quindici differenti presentazioni. Di questi duecento allenatori almeno trenta/quaranta sono professionisti, anche NHLer, parecchi AHLer e diversi europei. Networking fa parte di questi simposi e ho conosciuto tanti allenatori molto preparati. Per quanto riguarda i confronti, oltreoceano sono molto curiosi di sentire le nuove tendenze europee. Diciamo che il credo di questo simposio è che non esiste un giusto o sbagliato, ma soltanto diversi modi di interpretare il tuo gioco. Ci si confronta, tante domande sul “perché” e i vantaggi su diverse soluzioni che vengono buttate lì.

Leghiamoci ad una persona presente nella prima domanda, Jim Corsi, per toccare un altro punto che nel corso degli ultimi anni è diventato quasi vitale per molti: le statistiche avanzate. Anche se la Corsi è una delle statistiche più semplici, nella sua semplicità, se letta dalla giusta prospettiva, può dire molto. Siamo onesti: aiutano, fanno riflettere, aprono la mente. Alcuni le criticano, ma è come criticare un programma televisivo quando si ha il telecomando e la possibilità di non guardare quel programma televisivo. Lei cosa ne pensa? All’interno dello staff delega o cerca di tenere tutto sotto controllo? Chiede ne vengano seguite alcune di specifiche?

Durante il percorso fatto come allenatore, più andavo avanti con il tempo più mi rendevo conto dell’importanza delle statistiche, soprattutto quelle avanzate. Si parla tanto delle difficoltà di allenare i millenials, ragazzi che sempre più spesso ti chiedono “perché devo fare questo“? Solo se riesci a monitorare tutti quanti ed hai sempre i loro valori sottomano, riesci anche ad essere imparziale nelle tue scelte. Per prima cosa i ruoli in squadra, al massimo alla fine del training camp, devono essere definiti. Devi capire dove, in quale linea posizionare certi giocatori di ruolo, che alla fine spesso rendono una linea d’attacco più completa o una coppia di terzini più solida. Per me un tiro bloccato o un contrasto vinto in zona difensiva, in una determinata partita o in un determinato contesto della partita,, possono risultare più decisivi che una rete fatta (per esempio se uno mi segna il 6-1). Stesso discorso vale per gli special teams. Sempre più squadre cercano di dividere i compiti: giocatori che sono in formazione PP non giocano PK e viceversa, distribuendo in questo modo il minutaggio che secondo mio avviso è importantissimo, soprattutto nella post-season. All’interno dello staff io mi occupo del piano partita e del PP, mentre il mio assistente dei terzini e del PK. Manteniamo i due ruoli distinti anche per quanto riguarda tutte le statistiche. Come allenatore trovo assolutamente necessario riguardarsi l’intera partita e per fare tutte le statistiche necessarie, nel mio caso, ci vogliono almeno quattro ore.

Restando nella questione delle statistiche, ha detto che ha notato e sta notando l’importanza di quelle avanzate più la sua carriera da allenatore prosegue. Una questione derivata con l’arrivederci al nostro paese, dove, parlando con totale sincerità, esistono? Ne segue alcune in particolare di statistiche riguardanti gli avversari, magari così importanti che sono in grado di stravolgere completamente un piano partita? Si fida esclusivamente dei collaboratori o studia dalla rete, piena di portali in cui un’infinità di addetti e non creano grafici e curve in grado di collegare diversi aspetti del gioco?​

Ogni squadra della Swiss League è obbligata a mettere a disposizione un addetto alle statistiche per ogni partita. Tramite l’utilizzo di un Ipad inserisce tutti i dati più noti: tiri, ingaggi, tiri bloccati, ecc. I dati delle statistiche avanzate le detraggo personalmente da ogni partita, riguardandomi ogni singolo cambio. Uso il sistema “Game Score” che usano diverse squadre NHL, dove ad ogni evento che capita nell’arco di un cambio possiede un preciso valore. Per esempio una carica fatta ha un valore di “plus 0,15”, un tiro bloccato un valore di “plus 0,20”, un primo passaggio dal terzino all’attaccante che ti permette di uscire dalla zona un valore “plus 0,20” e così via. Esistono anche valori negativi, un passaggio non completato ha un valore di “minus 0,20” ed un contrasto perso ha un valore di “minus 0,20”. Alla fine tiro la somma e deduco chi ha prodotto qualcosa, chi era visibile e chi era coinvolto, differenziandoli da chi era solo un “passenger” come gli chiamo io. Per quanto riguarda il game plan, quello viene stabilito tramite una precedente analisi video personale che presento alla squadra la mattina della partita, di solito composta dai venti ai venticinque video, della durata di dieci secondi cadauno, riguardanti le tendenze dell’avversario nel gioco con e senza il disco. Dopo questa prima presentazione ne faccio un’altra per gli special teams nelle situazioni di PP e PK. I video vengono tagliati e montani da me medesimo. 

Da quello che si è potuto intuire, lei preferisce dei giocatori che fanno molto bene alcuni aspetti del gioco. Degli specialisti, veri e propri, in base alle possibilità che si ritrova. Secondo lei, si è dovuto adattare a questo aspetto, vista l’attuale velocità del gioco, o è una linea di pensiero che ha sempre seguito e cercato? Al giorno d’oggi esistono ancora i giocatori totali, in grado di entrarti con calma nel terzo offensivo per via centrale e al cambio dopo chiuderti in ripiegamento tra i terzini, ma le lancio una provocazione: servono ancora con questa velocità del gioco, visto che per essere in grado di fare tutto non puoi girare sempre a mille?​

Non preferisco giocatori che fanno bene soltanto determinate cose, poiché in una squadra è fondamentale dare i giusti ruoli ai vari giocatori. Una volta venivano chiamati giocatori da quarta line, mentre io preferisco il termine role player. Come giustamente dici, la velocità del gioco è aumentata parecchio, quindi muoversi all’interno dei principi di gioco prestabiliti permette a giocatori non così tecnici di saper tenere il campo, magari anche contro una prima linea avversaria. Il loro lavoro è di giocare con intensità, tenere il ritmo alto, mettere sotto pressione l’avversario nel forechecking e sempre con un terzo uomo alto. Hanno molta meno libertà offensiva che le prime due linee e da loro non mi aspetto delle reti ad ogni partita. Un tiro bloccato o un PK fatto bene sono parti del gioco molto importanti. Personalmente, in situazioni di PK utilizzo quattro dei sei attaccanti schierati in terza o quarta linea.

Quali sono le maggiori differenze tattiche riscontrare nel passaggio dall’Italia alla Germania e successivamente dalla Germania alla Svizzera?

​In Germania viene praticato un gioco più fisico e, come detto in precedenza, tatticamente molto vicino a quello che viene giocato in AHL. Molti allenatori provenienti dalle minors americane aiutano questo trend. Tatticamente questo hockey di solito è basato più su forecheck aggressivo, pressione sull’uomo. In Svizzera la velocità in transizione è una delle caratteristiche che ho notato fin da subito. Cinque giocatori sempre vicini a darsi supporto con o senza disco, con i difensori che seguono o addirittura precedono il contropiede.

Se le dessero una squadra di giovani maggiorenni, con delle basi non solide e molta confusione nella mente, su che punti del loro aspetto si focalizzerebbe, sia dentro che fuori dal ghiaccio? In una società frenetica come quella moderna, dove i valori sembrano un qualcosa di superfluo, quali aspetti di questo fantastico sport utilizzerebbe per muovere la coscienza di un giovane atleta non proprio sul pezzo? ​

Per prima cosa si deve creare la giusta cultura del lavoro, del sacrificio e infine lo spirito di squadra. Quest’ultimo diventa fondamentale se vuoi avere successo in uno sport di squadra. A livello tattico, in primis saper stare in campo, saper giocare e muoversi senza disco, coprendo bene la parte centrale del campo. In presenza di disco, cercare di portarlo sempre nella parte centrale del campo. Dare sempre supporto al terzino in zona difensiva, cercando di creare costanti superiorità numeriche nei contrasti negli angoli. Una delle parole che sentono di più i miei giocatori è support. Per quanto riguarda il fatto di toccare la coscienza di un giovane atleta, credo che arrivato all’età di sedici anni un ragazzo devo fare una scelta e farsi delle domande: se vuole proseguire, quanti sacrifici è disposto a fare? Prendiamo l’esempio svizzero: se non sei disposto a soffrire e spingerti oltre, vista la competizione presente, duri poco.

Come degna chiusura, ringraziandola del tempo messo a disposizione, credo che l’intervistatore debba lasciare libertà di parola all’intervistato, senza pali e paletti. Quindi, vuole parlare di qualcosa a lei caro e che non è stato trattato durante tale intervista?

L’unica cosa che vorrei aggiungere riguarda alcune problematiche del movimento italiano, che ho notato in prima persona in questi sette anni lontano dall’Italia. Per quanto mi riguarda, quello che ci manca maggiormente è la chiara volontà di collaborazione tra piccole società per quanto riguarda lo sviluppo dei giovani. Abbiamo palazzi da ghiaccio a sufficienza ma dobbiamo osare di più al fine di creare dei centri dove raggruppare ragazzi della stessa fascia d’età, piuttosto di accontentarci di vincere un campionato U15 che dopo due anni nessuno si ricorda più. Sarebbe importante mettere il focus sullo sviluppo dei giocatori, piuttosto di vincere a tutti i costi al fine di accontentare qualche giocatore di talento e i loro genitori. Non si cerca di inventare l’acqua calda e basterebbe guardare cosa fanno nei paesi scandinavi.

Zamboni-O-Interview: al tavolo con Francesco De Biasio

Per questa prima uscita di Zamboni-O-Interview, sono stato in grado di raggiungere un ottimo difensore partorito da quel territorio agordino che così tanti giocatori ha offerto al mondo hockeystico. Parlo di Francesco De Biasio, difensore, classe 1985 ed alleghese nell’io più profondo e non solo guardando la carta d’identità. Con all’attivo ben sedici stagioni da professionista, spalmate tra massimo campionato della penisola italiana ed Alps Hockey League, la si può catalogare come una delle attuali bandiere del nostro movimento. Figlio di quel Paolo De Biasio (classe 1960, anche lui difensore ma di stecca sinistra) che alzò l’Alpenliga nel lontano 1993 con la maglia, appunto, dell’Alleghe. Una società in cui il padre militò per tutti i vent’anni di carriera, battendo la corazzata bolzanina in quella famosa finale appena nominata, a differenza di un figlio che salutò l’ovile poco dopo aver spento le ventotto candeline.

Immaginando di trovarci seduti intorno ad un tavolo, magari di un bar di Alleghe, prendiamo ad esempio il “Bar alla camminada” presente prima di entrare in paese, i fogli della moleskine risultano essere pronti per far trovare casa e voce alle parole del giocatore nato lo stesso giorno di Gustaf Wesslau.

Tralasciando l’effettiva differenza di qualità tra campionato prettamente italiano ed Alps Hockey League, i suoi numeri sono totalmente mutati nel cambio di campionato. A dire la verità, in modo non trascurabile, cambiarono pure quando abbandonò il paese natio (Alleghe) per approdare a Torre Pellice. Come quando si cambia casa e si esce da quelle quattro mura che ti hanno allevato e cresciuto, quanto ha influito su di lei il distaccamento dal paese d’origine? Il mettersi in gioco, l’obbligo di cambiare aria, la capacità di avere meno vincoli emotivi e non.

“Cambiare aria fa sicuramente bene e ti permette di sentirti più responsabilizzato. Già quando passai al Valpellice (nel 2013) la mia produttività offensiva cambiò e nelle stagioni disputate in Alps Hockey League, prima al Cortina e successivamente al Milano e Gardena, migliorò ancora di più. Un fattore importante credo sia dovuto, appunto, dal saluto ad Alleghe e al fatto di non sentirsi più un giocatore locale. Quando sei via di casa tendi a ricoprire un ruolo più importante nel roster, anche in quelle situazioni di PP e PK dove nella maggior parte dei casi vengono utilizzati stranieri. In più, quando ero ad Alleghe, per la maggior parte della stagione facevo un altro lavoro. Avevo meno tempo da dedicare alla palestra, all’allenamento, al lavoro sul mio fisico e ai vari aspetti del gioco, sia interni che esterni al ghiaccio”.

Con tutta onestà non ho un’impeccabile memoria, lo ammetto, ma ricordo bene come giocava a Cortina. E’ sempre stato un giocatore di posizione, responsabile, da possesso disco in zona arretrata. Però all’Olimpico (di Cortina d’Ampezzo) le era stato chiesto di fare uno step in più: maggiore impostazione da dietro, anche con sortite offensive, e notevole presenza in situazioni di PP, dove faceva girare spesso e volentieri il disco.

“Il fisico (F.De Biasio conferma i dati di eliteprospects: 167×77) non mi ha mai permesso di essere un difensore duro ed ho sempre dovuto sopperire a questa mancanza con il senso di posizione e la tecnica. In carriera ho sempre avuto il compito di giocare il disco, infatti nella maggior parte dei casi ho giocato con difensori duri in modo da avere dei compiti ben precisi. Già quando ero ad Alleghe scendevo sul ghiaccio per i PP, ma a differenza di Cortina (dove era nella prima) ero nella seconda unità dopo gli stranieri. Ci tengo a sottolineare che dal passaggio al Valpellice sono stato messo in grado di giocare l’hockey più congeniale alle mie caratteristiche: un difensore con senso offensivo. Quando giochi in terza linea (come accadeva ad Alleghe), per via della presenza di molti stranieri a roster, il compito diventa quello di difendere più che di proporsi in zona offensiva”.

Noi esseri umani abbiamo un pregio che è anche un difetto: la voglia di emulare. Ripensando ad un Francesco De Biasio bambino, quali erano i giocatori che voleva emulare? Ad esempio: quel movimento di tale giocatore la ipnotizzava, la stecca di quell’altro veniva tenuta in un modo ben preciso ed altrettanto ipnotico. E da giocatore professionista avrà sicuramente visto dei giocatori che hanno catturato il suo occhio da appassionato del gioco, tanto da voler copiare qualche loro marchio di fabbrica?

“Ad essere onesto l’idolo adolescenziale ce l’avevo tra le mura domestiche ed era mio padre (Paolo De Biasio, con la maglia dell’Alleghe dal 1974 al 1994), anche se devo ammettere che abbiamo un modo di giocare totalmente differente. Fino all’U19 ho anche ricoperto il ruolo di centro, dove ho sviluppato quella tecnica che non tutti i difensori possiedono, poiché nel terzo difensivo servono altre qualità. Un discorso che valeva di più fino a qualche tempo fa, visto che ora l’hockey (in generale) premia di più la tecnica e meno il fisico. E’ diverso, è cambiato. Quando ero piccolo ad Alleghe approdarono giocatori fenomenali ed il migliore di cui ho memoria era Bruce Cassidy (ad Alleghe dal 1990 al 1993 ed attuale allenatore dei Boston Bruins). Nonostante fosse malconcio era un giocatore fenomenale. Da piccolo guardavo la serie A ed il massimo campionato nordamericano, tanti giocatori catturarono la mia attenzione. Senza andare tanto indietro nel tempo ti faccio i nomi di Brent Burns ed Erik Karlsson (difensori dei San Jose Sharks), perché sono difensori di una qualità ben sopra la media, specialmente il secondo”.

Francesco e Paolo De Biasio. Foto concessa dall’intervistato

Se le fosse data l’opportunità di tornare indietro nel tempo, su che aspetti del gioco si soffermerebbe maggiormente nell’apprendimento? Un apprendimento sia adolescenziale che da giocatore adulto.

“A dire la verità non cambierei nulla del mio passato a livello di apprendimento. Forse qualcosa si sarebbe potuta fare meglio, con maggiore dedizione, ma sinceramente ad Alleghe le giovanili sono sempre state seguite da allenatori bravi e competenti, quindi abbiamo avuto sempre il meglio per imparare”.

Da chi ha imparato maggiormente, tralasciando suo padre? Parlo sia a livello di compagni di squadra che di allenatori.

“Per quanto riguarda i colleghi di ghiaccio, ho sempre cercato di rubare un po’ da tutti, quindi sia da compagni di squadra che da avversari. Allenatori ne ho avuti tanti e quasi tutti molto preparati, però Tom Pokel (avuto ad Alleghe) e Mike Flanagan (avuto a Torre Pellice) sono stati i due che mi hanno lasciato qualcosa in più. Parlo per la preparazione in tutte le fasi di gioco. Mike Flanagan era ossessionato con gli ingaggi e aveva almeno quattro opzioni per ogni zona del campo. Opzioni non tutte facili, specialmente per gli attaccanti che avevano un bel compito negli incroci e cambi di posizione. In più, per lui (Mike Flanagan) era fondamentale uscire con il disco sempre nel mezzo e non era concepibile fare scorrere il disco lungo la balaustra dal terzo difensivo. Per Tom Pokel, invece, era fondamentale la posizione sul ghiaccio in ogni situazione di gioco. Non aveva uno stile unico, bisognava adattarsi a quello degli avversari. Era un allenatore duro e con lui non era assolutamente permesso fare giochetti nemmeno in allenamento, ad esempio passaggi alti o in mezzo alle gambe. Voleva solo passaggi duri, secchi e precisi. L’intensità la faceva da padrone negli allenamenti”.

Non le chiedo di altre zone del campo, come quella offensiva a lei non pertinente da professionista, ma come sono stati i rapporti con i compagni di linea che ha avuto nel corso della sua carriera?

“Le linee cambiano spesso ed è difficile giocare più di tanto con uno stesso partner difensivo. Ad Alleghe ho giocato per varie stagioni con stranieri che cambiavano di anno in anno. Con ognuno giochi differente, bisogna trovare il giusto mix di coppia. Ci sta il periodo di adattamento ma dopo un po’ ti trovi bene con tutti. Non ho mai avuto compagni di linea che volevano o pretendevano qualcosa in particolare, anche perché si cerca sempre di fare il proprio lavoro con diligenza e senza pretendere da altri cose diverse da quelle che possono offrire”.

Nelle sue risposte si percepisce molto l’attaccamento ad Alleghe. Cosa si ricorda di quel brutto 2013? Ripartire dal basso non è una tragedia, specialmente per una città che ama questo sport, ma per un piccolo comune come il vostro deve essere stata una brutta tegola. Alleghe è sempre stata una squadra difficile da non amare o almeno ammirare. Perché, ciclicamente, si presentano questi brutti avvenimenti nel nostro movimento? Si annaspa, si raschia il barile. Non è uno sport d’elite, ma anche senza soldi e blasone si può fare qualcosa di rimarchevole?

“Ad Alleghe è stato un problema puramente economico, nel senso che all’epoca andò via lo sponsor principale dopo vent’anni di relazione. Avevano provato a rimpiazzarlo ma non si era trovato alcun accordo. Nessuno pensava si potesse andare prima in C e poi in B. Tutti davano per scontato che la squadre continuasse nel massimo campionato ma nel 2013 non c’era più la possibilità di continuare quel cammino. Con il senno di poi è un gran peccato che quell’Alleghe fu costretto a ripartire dal basso, perché aveva un gruppo di italiani molto valido che per un motivo ed un altro non ha mai raccolto quello che avrebbe potuto raccogliere”.

Lei, in prima persona, come reagì alla notizia? La paura di lasciare Alleghe, una terra in cui era sempre rimasto, le fece venire in mente qualche malsana idea? Ha pensato al ritiro, giusto per esagerare?

“Non ho mai pensato di smettere e non ho mai pensato di voler giocare sempre ad Alleghe. Anche prima dell’accaduto avevo l’intenzione di vedere come funzionava fuori e nella sfortuna della società ho potuto provare. Amo giocare ad hockey, anche se per me è un lavoro e come ogni lavoro ci sono dei periodi buoni e dei periodi meno buoni. Adesso, che mi avvio a concludere la mia carriera sul ghiaccio, magari tra uno o due anni, se riguardo indietro e penso a tutti i sacrifici fatti posso dire che lo farei di nuovo e con ancora più intensità. Vorrei continuare a giocare ad hockey ma nell’autunno prossimo diventerò padre, quindi le priorità potrebbero cambiare. Non dipende solo da me e vedremo cosa dirà l’estate”.

Visto che è stato toccato il tema riguardante la conclusione della carriera, le pongo la più classica delle domande: come si vede fuori dal ghiaccio? Vuole proseguire in tale ambito, cercando di restare nei senior o lavorando con le giovanili? Oppure si vede come un allenatore da fondamentali o singoli aspetti del gioco?

“Adorerei restare nell’ambiente, però sono a conoscenza del fatto che risulta essere molto difficile farlo combaciare con un lavoro normale. Difficilmente un allenatore, specialmente che deve partire dal basso, può fare solo quello e guadagnare soldi sufficienti per mantenersi. Mi affascina la figura del direttore sportivo, fondamentale nel contatto con i giocatori e nel creare la squadra con l’allenatore. Una figura che in tante squadre manca”.

Ritornando al Francesco De Biasio giocatore, le propongo una domanda tramite l’utilizzo di una sola parola: nazionale?

“In nazionale ho fatto tre mondiali giovanili (2002 e 2003 con l’U18, 2005 con l’U20), due Universiadi (2007 e 2013) e tanti training camp con la squadra maggiore. Com’è noto non ho mai fatto un mondiale. Nei primi anni con Michel Goulet (allenatore dell’Italia senior dal 2003 al 2008) era veramente difficile trovare spazio come difensore, perché oltre ai quattro italiani più forti (Michele Strazzabosco, Armin Helfer, Christian Borgatello, Carlo Lorenzi) erano presenti molti italo di una certa caratura. Sono stato tagliato per ultimo un paio di volte. Successivamente con Tom Pokel (allenatore dell’Italia senior dal 2012 al 2014) ho fatto i raduni ma in tutti e due i casi non mi è andata bene: nel primo sono stato tagliato all’ultimo giorno, mentre nel secondo sono stato chiamato al lavoro ed ho dovuto lasciarlo (il raduno) dopo solo tre giorni. Andato via il mio ex allenatore ad Alleghe si è passati ad una nuova nazionale, ad una nuova veduta d’insieme più improntata sui giovani, quindi le scelte erano giustamente altre (all’epoca, nel 2014, Francesco De Biasio aveva 30 anni)”.

Universiade, stadio del ghiaccio Gianmario Scola (Alba di Canazei), 2013. Foto tratta dal sito trentocitta.it

Ha parlato di Carlo Lorenzi, difensore classe 1974. Giocò sia insieme a suo padre che con lei. Attualmente, alla veneranda età di 44 anni, continua a fare il suo nell’amata Alleghe. Può essere che giochi anche dopo il suo ritiro? E possiamo dire che, a conti fatti, è il miglior giocatore partorito dal territorio agordino?

“Può essere che continui a giocare ancora per un po’ (e ride). Sicuramente lui e Lino De Toni (classe 1972 ed una stagione oltre i 100 punti con la C alleghese sul petto) credo siano i migliori mai usciti da Alleghe. Anche altri del passato di cui ho solo sentito parlare erano molto validi, però per averli visti con i miei occhi loro due sono tra i migliori”.

Ricordo un duro scontro di gioco tra un Alleghe e Pontebba del 2012. Un pessimo intervento scorretto da parte di Kevin DeVergilio ai danni di Manuele Da Tos. Quello dell’accentuata cattiveria sul ghiaccio anche quando non serve è sempre stato un problema, ma è proprio vero che l’adrenalina della partita non le fa percepire con precisione la gravità di determinati avvenimenti? Spesso, anche quando le mani di noi sugli spalti non vorrebbero discostarsi dal volto, vista la gravità dello scontro di gioco, voi giocatori guardate la scena con fare neutro, come se nulla di grave fosse successo. Sbagliamo noi nel percepire il vostro comportamento?

“Credo che se un giocatore vuole fare male lo fa ed è successo anche a me, sia di farlo che di riceverlo, pur non essendo un gigante. Nel caso del fallo ricevuto da (Manuele) Da Tos era intenzionale e doveva andare punito ben più che con una giornata di squalifica, questo è certo. Capisci subito quando uno si fa male, comunque i falli volontari devono essere puniti con vari metri di paragone. Una volta erano presenti molti più falli cattivi, adesso di meno, ma ci saranno sempre perché quando sei sul ghiaccio non pensi a quanto uno può realmente stare fuori (infortunato). Credo si sia fatto molto, e si continua a fare, per evitare tutto ciò. Le squalifiche sono più lunghe e le multe più salate, quindi inevitabilmente questi avvenimenti sono calati. Negli ultimi anni l’intensità del gioco è calata, quindi gli interventi duri i giocatori cercano di farli in maniera corretta e questo può essere solo che un bene. Con il DOPS della Alps Hockey League è difficile che interventi illegali non vengano puniti con la giusta sanzione. Certo, quello che fa volontariamente l’intervento scorretto ci sarà sempre”.

Sempre in modo ipotetico, vediamo che la saracinesca del “Bar alla camminada” sta scendendo verso il pavimento. Ci viene consigliato di lasciare il locale nei minuti successivi. Senza fretta, con cortesia, con il sorriso in volto.

Siamo arrivati alla conclusione dell’intervista. La lascio chiedendo se vuole parlare di qualcosa in particolare, strappando un sorriso al lettore o parlando di qualche tema, per lei importante, che questa intervista non ha toccato.

“E’ sempre bello parlare di hockey con chi è appassionato di questo sport, perché la verità è che siamo troppo pochi. Resto tutt’ora convinto che sia uno sport che può piacere a tanta gente. Aneddoti da spogliatoio ce ne sarebbero tanti ma ciò che succede in spogliatoio resta in spogliatoio. Posso dire che in ogni anno da professionista ho trovato ottimi spogliatoi, dove si rideva e scherzava tutti insieme. Sono stato molto fortunato sotto questo aspetto. Ho avuto la fortuna di giocare in cinque differenti squadre e in tutte ho trovato amici che rimarranno tali e che continuerò a sentire”.

La saracinesca scende, la serratura fa il suo dovere e le spalle di Francesco De Biasio mi lasciano da solo alla ricerca del posto in cui ho lasciato l’autovettura. Una visione tutta immaginata, a differenza delle belle parole e della rimarchevole gentilezza offerta dal difensore per questa prima uscita di Zamboni-O-Interview.

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