Un cuore mezzo spezzato all’Alvise De Toni

Per quale motivo, in tale blog, si è presentato un oblio di scrittura della durata di dieci giorni? La pagina social è stata aggiornata con relativa regolarità, le solite varie storie di contorno, ed alcuni lavori sono stati fatti per siti terzi del settore. Tutto nella norma, tutto regolare e ad una velocità di crociera costante, quindi perché l’oblio in questo minuscolo spazio governato dalla sola passione? Serve andare indietro nel tempo, di poco, pochissimo, parlare di quanto successo lo scorso 21 Ottobre.

In un’escursione amorosa nella Val Di Fassa, dopo alcune di ore di pace si è tornati indietro accarezzando il passo Fedaia: temperatura ottimale, visuale annebbiata in zona bacino artificiale ed il solito Sottoguda ad aspettarti scendendo verso la provincia di Belluno. Tra un cervo appena morto e certi piccoli cantieri abbandonati alla pausa del weekend, in poco tempo si approda ad Alleghe. La distanza da Sottoguda al centro di Alleghe è di 11 km o poco più. Era da tempo che non ci passavo, anni su anni, ma la sensazione è rimasta la stessa di sempre: una località ferma ad un tempo indefinito, passato, non precisato in qualche momento prima dell’avvento del nuovo millennio. In zone periferiche, di montagna, tali sensazioni ti attanagliano con costanza, è proprio la loro natura ad imporlo, ma ad Alleghe regna una pregna visuale passata. Ho voluto fermarmi, parcheggiare, giusto per capire se quanto visto dal finestrino lo potevo percepire pure a piedi. Mettendo le mani all’interno del lago, la verità è stata ancora peggiore, figlia di un forte senso di piattezza che ti attraversa nel profondo. L’impressione è che Alleghe visitata vent’anni fa ed ora non marca grosse differenze, sembra un libro adagiato su di una libreria abbandonata: fermo al suo posto, sempre vivo ma con molta polvere a coprirlo. A questa visione non si è salvato nemmeno l’Alvise De Toni, che se uno non sapesse che la squadra è attiva pronuncerebbe le solite parole: “Peccato sia stato abbandonato”.

Conosciamo le problematiche attraversate negli ultimi anni ed il ghiaccio fatto, una volta trovato un pertugio per vedere all’interno, mi ha strappato un sospiro di sollievo. Sì, perché pur sapendo che l’attività persiste, comunque ti gira in testa questo possibile abbandono dello stabile. “Sei ancora vivo”, viene da pensare. All’Alvise De Toni ci lego alcuni ricordi passati, quando macinavo chilometri per venire a vedere determinati giocatori: Keith Seabrook per quel poco che è rimasto a Brunico; quando Adam Henrich salutò Asiago ed approdò ad Alleghe, facendo un memorabile dito medio a tifosi terzi; Nicola Fontanive che era sempre un piacere vedere; Vince Rocco e Dave Bowman. Le Civette hanno sempre catturato la simpatia di tifosi esterni, è sempre risultata quel tipo di società per cui fai fatica a remare contro. Ogni palazzo ha il suo spirito, trasmette la sua natura, e quello dell’AdT è impregnato da tutta la gente che ci abita vicino, nella vicinanze, a pochi chilometri di distanza. Riscaldato dalla gente, sostenuto dallo spirito del paese, una cosa che per un passante, in questo preciso momento storico, si fa fatica a vedere. Non è così, lo sappiamo, ma la visione è una grossa fetta della percezione umana. Non deve essere un problema, ognuno ha le proprie difficoltà, come non deve essere presa come un’offesa questa lettera di ragionamenti. Le problematiche nell’hockey su ghiaccio italiano sono note a tutti, sempre le solite: abbandono al proprio destino, privazione di un piano a lunga durata, investimenti da ultimi della classe. Lo stadio che rappresenta l’agordino, ora come ora e visto con il solito occhio di passaggio, può essere una più che veritiera rappresentazione di tutti questi punti. Strappa il cuore.

Sono passate parecchie righe, comunque non è ancora stato detto il motivo per cui si è presentato l’oblio di dieci giorni. Spieghiamolo: tornato a casa, con tutti questi sentimenti, mi sono messo in testa di raccogliere materiale sullo stadio in questione, cercare di creare una serie di racconti/interviste/tuttoquellochesipuòfare per offrire una dignità storica. Una dignità all’hockey su ghiaccio, dal mio piccolo orto che vedono quattro persone, forse nemmeno quelle. Così, senza pensarci, sono andato dritto ai contatti della società. C’ho trovato una genuina disponibilità, pur non capendo dove voleva andare a parare quel pirla che si è permesso di mandare una richiesta così periferica, quasi insensata. Poi, l’oblio, forse la richiesta di informazioni è stata fin troppo proibitiva. Questo oblio, derivato dall’attesa, si è concluso con la scrittura di questo inutile articolo.Un pezzo che è stato scritto anche per far capire che non è stata percepita alcuna offesa, figuratevi, non sono nessuno. E’ uno sport che fa fatica a raccontarsi, è stato abituato a tenere le porte socchiuse.

Il giovane ceco reso cieco dal padre ceco che non era cieco

Per dire, anche se un articolo non dovrebbe iniziare con queste due parole, avete la più pallida idea di cos’è Litvinov? Non è un’offesa e nemmeno il nome di una ragazza che avevate conosciuto durante l’Erasmus, tanto per iniziare. Risulta essere una cittadina di 24.000 della Repubblica Ceca, nella regione dell’Ustecky e a poco meno di 30km dal confine con la Germania. Sì, tranquilli, nemmeno il sottoscritto sapeva dell’esistenza di questi mistici luoghi. L’ho scoperta leggendo la biografia di Miroslav Frycer, attuale deus ex machina dello Znojmo e ben conosciuto nella penisola per i suoi trascorsi tra Brunico (anche da giocatore), Alba di Canazei, Merano, Cortina e Collalbo. Pensando alla propria gioventù, il classe 1959 ricorda di quando adolescente era stato ad un passo da andare a giocare per la squadra di proprietà, ieri come oggi, della Unipetrol. In quella squadra giocava Ivan Hlinka, leggenda già all’epoca e beniamino del 99,9% della popolazione ceca, però alla fine dei conti il padre di Frycer non accettò di mandare via il figlio ancora così giovane (aveva 15 anni).

Miroslav Frycer (a sx) con i Toronto Maple Leafs. Foto tratta da: torontopubliclibrary.ca

Contando che il futuro gioiello dei Maple Leafs non incrocerà più l’HC Litvinov, se non da avversario, è giusto capire che tipo di città si è lasciato alle spalle. Lo dico perché, nel libro, fa capire che, pur potendo giocare nella stessa squadra di Ivan Hlinka, aveva qualche dubbio sulla possibilità di godersi una decente quotidianità in una città di 24.000 abitanti (che all’epoca, quindi a metà anni ’70, saranno stati sicuramente di meno). MF è cresciuto ad Opava, una città di poco più di 50.000 abitanti e nel profondo est ceco, a pochi passi dal confine con la Polonia. Dal confine polacco al confine tedesco: sarebbe stata un’altra differenza non irrilevante.

Ritornando alla nostra Litvinov, cosa può offrire al giorno d’oggi? Ben poco, bisogna essere onesti fin da subito. Risulta difficile trovare nozioni turistiche in inglese, dopotutto una città di 24.000 abitanti ha bisogno di promuoversi se non ha nulla in più di una squadra di hockey su ghiaccio? Dopo lo stadio, che quasi non si trova pure utilizzando Google Maps, la maggiore attrazione potrebbe trovarsi all’interno degli uffici della Unipetrol. Nel senso che proprio gli uffici, con varie pile di carte e molte penne, potrebbero essere la vera seconda attrazione del luogo. Potete passare del tempo visitando questi luoghi: il castello cittadino, bruttino; un museo riguardante il lavoro in miniera, se non ho spulciato male; una chiesa o più chiese; delle mirabolanti case popolari; uno skyline piatto e che non punta verso il cielo.

Nel 1976 il padre acconsentirà all’approdo del figlio in quel di Ostrava, dove ha sede l’HC Vitkovice, un luogo molto più vicino a casa e con una popolazione ben distante dalla miseria. Una squadra che, fin da giovane, il ragazzo non supportava e sopportava ma che farà le sue fortune.

Alexander, il ragazzo del basso quartiere

Foto tratta da: deadspin.com (Bruce Bennett / Getty Images)

Zigzagando tra vari articoli di contorno, sono incappato nella notizia riguardante la positiva striscia di otto partite con punti a referto da parte di Alexander Radulov. Con il Winter Classic dietro alle porte, la striscia potrebbe toccare il numero nove per poi arrivare alla doppia cifra quando la compagine di Dallas tornerà a giocare sotto un tetto.

Era da qualche tempo che non mi informavo sull’andamento della carriera del prodigio russo, quindi il piccolo cervello che possiedo è volato indietro nel tempo ed è stato in grado di catalogare alcuni ricordi, grazie anche all’aiuto del fantastico mondo racchiuso dentro uno schermo. Dei ricordi sbiaditi, quasi dimenticati, fermi a più di una decade fa. Dei ricordi che strappano un sorriso, fanno tornare la passione e ti mangiano qualche ora mentre dovresti pensare a fare qualcosa di più produttivo per la famiglia.

Qual’è il vero motivo per cui AR lasciò gli Stati Uniti nel 2008? Soldi, fama, impossibilità di essere totalmente libero o altro? Da credulone ed amante accecato, ho sempre creduto, e voglio tutt’ora credere, nella sua dichiarazione dettata dalla spocchia che aveva per cui si faceva amare, da alcuni, ed odiare, da altri:

I returned to Russia not so that I could return again to the NHL but rather to offer all of my efforts and professionalism to the betterment of Russian hockey taking it to a new level

Perché questo era Alexander Radulov agli occhi di un giovane maggiorenne: un talento di prima fascia ma con la spocchia di un balordo da basso quartiere. Una spocchia che era la sua arma più importante, quell’arma che lo fece arrivare in NHL con la convinzione di giocare lo stesso hockey che giocava nelle leghe minorili e farla franca. In verità il russo era anche altro, come dissero alcuni compagni di squadra, perché se impattava contro un muro, lo capiva e prendeva le giuste precauzioni. Piccolo esempio: voleva tenere sempre il puck, fare di testa sua, ma quando capì che giocandolo con gli altri poteva raggiungere con più facilità la via della rete iniziò a passare il disco con regolarità. Un qualcosa di basilare per quasi tutti ma non per un giovane gradasso come il russo.

Così, nell’estate del 2008, dopo aver fatto sognare alla città di Nashville di avere tra le mani un talento che non avevano mai avuto, fece i bagagli e se ne andò. Dopo otto stagioni in cui fu il miglior giocatore presente in KHL, permettendo (effettivamente, come aveva detto) a tale lega di arrivare ad un maggior successo, nel 2016 tornò in NHL atterrando nella città di Montreal.

Un uomo più maturo, più responsabile, più uomo di squadra e con un bagaglio di classe ancora maggiore. Nonostante ciò, la spocchia da basso quartiere non scompare del tutto da qualsiasi essere umano, figuratevi da un talento cristallino come AR. Famose le parole di Marc Bergevin, general manager dei Canadiens, quando nell’estate del 2017 si vide costretto ad accettare la rinuncia del rinnovo del contratto del russo in favore di quello offerto dagli Stars, uguale in tutto e per tutto ma con meno trattenute da parte dello stato:

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