Un cuore mezzo spezzato all’Alvise De Toni

Per quale motivo, in tale blog, si è presentato un oblio di scrittura della durata di dieci giorni? La pagina social è stata aggiornata con relativa regolarità, le solite varie storie di contorno, ed alcuni lavori sono stati fatti per siti terzi del settore. Tutto nella norma, tutto regolare e ad una velocità di crociera costante, quindi perché l’oblio in questo minuscolo spazio governato dalla sola passione? Serve andare indietro nel tempo, di poco, pochissimo, parlare di quanto successo lo scorso 21 Ottobre.

In un’escursione amorosa nella Val Di Fassa, dopo alcune di ore di pace si è tornati indietro accarezzando il passo Fedaia: temperatura ottimale, visuale annebbiata in zona bacino artificiale ed il solito Sottoguda ad aspettarti scendendo verso la provincia di Belluno. Tra un cervo appena morto e certi piccoli cantieri abbandonati alla pausa del weekend, in poco tempo si approda ad Alleghe. La distanza da Sottoguda al centro di Alleghe è di 11 km o poco più. Era da tempo che non ci passavo, anni su anni, ma la sensazione è rimasta la stessa di sempre: una località ferma ad un tempo indefinito, passato, non precisato in qualche momento prima dell’avvento del nuovo millennio. In zone periferiche, di montagna, tali sensazioni ti attanagliano con costanza, è proprio la loro natura ad imporlo, ma ad Alleghe regna una pregna visuale passata. Ho voluto fermarmi, parcheggiare, giusto per capire se quanto visto dal finestrino lo potevo percepire pure a piedi. Mettendo le mani all’interno del lago, la verità è stata ancora peggiore, figlia di un forte senso di piattezza che ti attraversa nel profondo. L’impressione è che Alleghe visitata vent’anni fa ed ora non marca grosse differenze, sembra un libro adagiato su di una libreria abbandonata: fermo al suo posto, sempre vivo ma con molta polvere a coprirlo. A questa visione non si è salvato nemmeno l’Alvise De Toni, che se uno non sapesse che la squadra è attiva pronuncerebbe le solite parole: “Peccato sia stato abbandonato”.

Conosciamo le problematiche attraversate negli ultimi anni ed il ghiaccio fatto, una volta trovato un pertugio per vedere all’interno, mi ha strappato un sospiro di sollievo. Sì, perché pur sapendo che l’attività persiste, comunque ti gira in testa questo possibile abbandono dello stabile. “Sei ancora vivo”, viene da pensare. All’Alvise De Toni ci lego alcuni ricordi passati, quando macinavo chilometri per venire a vedere determinati giocatori: Keith Seabrook per quel poco che è rimasto a Brunico; quando Adam Henrich salutò Asiago ed approdò ad Alleghe, facendo un memorabile dito medio a tifosi terzi; Nicola Fontanive che era sempre un piacere vedere; Vince Rocco e Dave Bowman. Le Civette hanno sempre catturato la simpatia di tifosi esterni, è sempre risultata quel tipo di società per cui fai fatica a remare contro. Ogni palazzo ha il suo spirito, trasmette la sua natura, e quello dell’AdT è impregnato da tutta la gente che ci abita vicino, nella vicinanze, a pochi chilometri di distanza. Riscaldato dalla gente, sostenuto dallo spirito del paese, una cosa che per un passante, in questo preciso momento storico, si fa fatica a vedere. Non è così, lo sappiamo, ma la visione è una grossa fetta della percezione umana. Non deve essere un problema, ognuno ha le proprie difficoltà, come non deve essere presa come un’offesa questa lettera di ragionamenti. Le problematiche nell’hockey su ghiaccio italiano sono note a tutti, sempre le solite: abbandono al proprio destino, privazione di un piano a lunga durata, investimenti da ultimi della classe. Lo stadio che rappresenta l’agordino, ora come ora e visto con il solito occhio di passaggio, può essere una più che veritiera rappresentazione di tutti questi punti. Strappa il cuore.

Sono passate parecchie righe, comunque non è ancora stato detto il motivo per cui si è presentato l’oblio di dieci giorni. Spieghiamolo: tornato a casa, con tutti questi sentimenti, mi sono messo in testa di raccogliere materiale sullo stadio in questione, cercare di creare una serie di racconti/interviste/tuttoquellochesipuòfare per offrire una dignità storica. Una dignità all’hockey su ghiaccio, dal mio piccolo orto che vedono quattro persone, forse nemmeno quelle. Così, senza pensarci, sono andato dritto ai contatti della società. C’ho trovato una genuina disponibilità, pur non capendo dove voleva andare a parare quel pirla che si è permesso di mandare una richiesta così periferica, quasi insensata. Poi, l’oblio, forse la richiesta di informazioni è stata fin troppo proibitiva. Questo oblio, derivato dall’attesa, si è concluso con la scrittura di questo inutile articolo.Un pezzo che è stato scritto anche per far capire che non è stata percepita alcuna offesa, figuratevi, non sono nessuno. E’ uno sport che fa fatica a raccontarsi, è stato abituato a tenere le porte socchiuse.

Il ponte tibetano tra Svizzera e Italia

Cosí vicino, cosí distanti. Svizzera e nord Italia confinano, una parte della prima alle volte viene considerata parte integrante della seconda. Non si è mai capito se viene colta come un’offesa o no, poiché se l’Italia ha una storia cosí importante che tutti vorrebbero farne parte, da un’altra prospettiva, prettamente caratteriale e sociale, le due nazioni risultano quasi ai poli opposti. Quindi, oroglio oppure offesa? L’eterno dilemma.

Di certo c’è che se metti sullo stesso piatto l’hockey su ghiaccio dei due stati, gli elvetici tendono a lanciarlo fuori dalla finestra tale piatto. Giustamente, come fanno volare a gambe all’aria il tavolo ed offendono il responsabile di sale che gli ha fatto quello sgarro. Si parla di Universi differenti, in fin dei conti praticamente due sport diversi. Un paese dove tale attivitá è parte integrante della cultura nazionale, contro un paese dove di tale sport il ceto medio ha ricordi trentennali dovuti al passaggio di Silvio Berlusconi. Anch’io mi offenderei se paragonassero il tiramisú fatto dalla nonna a quello di un villaggio turistico estivo collocato in chissá quale paese.

Un minestrone di pensiero per dire che la NL è ai blocchi di partenza, con all’interno il giocatore prototipo che divide le due nazioni. Sono passati ormai dieci anni, quando Chris DiDomenico approdó in SL dopo aver giocato in Italia. Tanti i commenti negativi, la storia ha affermato il contrario.

L’anno in cui il Milano andò in Francia

Alle volte si parte a fare delle ricerche per scherzo, voglia di passare il tempo con leggerezza e governati dalla sola passione. Così doveva essere pure quella riguardante la stagione 1999/00 del Milano, così atipica ed unica da vedere la compagine meneghina disputare il massimo campionato francese. Un bug storico, una variabile impazzita che meritava di essere approfondita. Un vivido ricordo per chi c’era, dopotutto sono passati poco più di vent’anni, ma non così scontata per chi questo sport lo ama ma a livello anagrafico si trova un passo indietro.

Il problema, con questo esatto tema, è che non si trovano informazioni. Esisteranno minuscoli portali, come lo può essere questo blog, in grado di fornire un’infinità di cenni storici sul tema in questione. Non si è stati in grado di trovarli, come il 99,9% del genere umano non trova questo blog. Niente di sorprendente, una solida realtà di cui non ci si deve vergognare.

Così, in un vicolo cieco e con le sole ed amorevoli informazioni presenti su hockeyarchives.info, è partita una specie di crociata per arrivare a qualcosa di tangibile. Oltre alle consuete informazioni di riepilogo che si trovano solo sul portale francese da poco nominato, sembra impossibile reperire informazioni su quella nefasta stagione, così considerata da molti sostenitori della squadra. Una formazione nata per protesta contro la federazione italiana, se vogliamo semplificare il tutto in poche parole, contro le regole del numero di stranieri da mettere a roster ed il solito problema del “cartellino da schiavista a termine” dei giocatori italiani. Sono partite email, contatti social, intricate ricerche al fine di far allineare i pianeti e trovare qualcuno in grado di ricordare, condividere. Le risposte sono state nulle da parte di quasi tutti i componenti di quel roster, dopotutto era pieno di stranieri e privo di una vera identità nazionale. Si è arrivati a contattare pure Jason Jennings, attualmente gestore di immobili di lusso vicino alla sua Vancouver. Risultato? Un’email di risposta pre-impostata da parte della sua azienda, quindi un nulla di fatto. Prima di proseguire, ricordiamo che la federazione francese aveva accettato la squadra italiana ma imponendogli di schierare a roster almeno cinque francesi e nel caso avesse vinto il torneo non avrebbe avuto alcun titolo. Come già accennato: un’atipica annata, un’impazzita variabile.

Su gentile concessione di Stefano Branzati, che di quella squadra faceva parte

Questa immagine sgranata, ricavata da un giornaletto, è stata donata dall’unico giocatore che di quel roster ha risposto: Stefano Branzanti. Classe 1979, vent’anni all’epoca e l’etichetta del più giovane: poche partite, solo all’inizio della stagione, poi un volo diretto verso Torre Pellice dove poteva giocare con costanza. Una persona squisita che è si è messa a disposizione per questo delirio, donando svariate informazioni al fine di creare un ricordo un pelo più solido:

Avevo vent’anni ed ero il più giovane, quindi il primo ad entrare in campo per gli allenamenti e l’ultimo ad uscirne. Il problema più grande è che gli altri partivano dai venticinque anni in su e quindi c’era molta differenza. Però è stata una bella esperienza.

Stefano Branzanti, ricordando quell’inizio di stagione 99/00

Tramite le fonti fornite, si coglie già una verità che in altri portali non veniva riportata: quel Milano non era legato al Cortina, come invece avvenne la stagione precedente. L’obiettivo di Alvise Di Canossa, nella presentazione all’Agorà del 7 Settembre 1999, era quello di mettere sul ghiaccio una squadra in grado di competere a livello europeo, permettendo all’intero sistema italiano di sviluppare dei prodotti al fine di arrivare in grande spolvero alle Olimpiadi del 2006. Quello stessa sistema che il Milano sembrava voler mettersi alle spalle, tanto per dire. Ricordiamo un attimo, con un pelo di maggiore precisione, perché il Milano approdò in un campionato straniero: voleva transfer illimitati, la FISG sembrava aver trovato un accordo a sette, alcune squadre rifiutarono di iscriversi per l’alto numero dei transfer, non si riesce a trovare un accordo, il Milano minaccia di iscriversi al campionato francese, a metà Agosto si concretizza il clamoroso salto. Un circo, il classico circo dell’hockey italiano che continueremo a vedere anche nei successivi anni, decenni.

Allenatore di quel Milano era Ivano Zanatta, da tre anni con i pattini appesi al chiodo ed una carriera da allenatore appena iniziata: dopo due anni a Cortina, il campionato 1999/00 era il secondo alla guida dei meneghini prima del saluto al Bel Paese e l’avvio di un’importante carriera dietro la panca partendo da Lugano. Pur essendo partiti con il progetto di far crescere gli italiani, in tutta la stagione a roster se ne sono potuti contare solo quattro: il già citato Branzanti, il portiere Gianluca Canei e Denis Zanol, oltre all’esperto capitano e naturalizzato Maurizio Bortolussi. Ora non ci mettiamo a fare la lista del roster ma in quella squadra erano presenti giocatori decisamente importanti: il goalie finlandese Sakari Lindfors, leggenda e numero 35 ritirato per l’HFIK; il difensore canadese Justin Peca, in arrivo dalla seconda serie tedesca e negli anni successivi bandiera del Milano ed importante tassello della nazionale; il difensore Leo van den Thillart, in poche parole uno, se non il, giocatore più importante partorito dalla nazione Olanda; la leggenda inglese Paul Adey in attacco, in uno dei pochi anni distante dal suo Nottingham; Teppo Kivela a fine carriera e prima di diventare, tanti anni dopo, un allenatore fatto e finito nel nostro paese; la semi-leggenda finlandese Jari Torkki, anche lui a fine carriera e passato per Merano l’anno precedente.

Sempre su gentile concessione di persone terze

Come finì quell’atipica stagione? Contando che i francesi non volevano la compagine meneghina, in poche parole venne disputato un torneo farlocco. Alla fine il Milano arrivò in finale contro il Rouen, dove su presunto scandalo arbitrale non fu in grado di andare oltre la piazza d’onore dopo aver dominato la stagione regolare: miglior attacco con 225 reti siglate, 47 in più del secondo migliore; miglior difesa con sole 85 reti subite, 31 in meno della seconda migliore. La piazza d’onore, non servirebbe nemmeno dirlo, fu solo teorica proprio per via della “presenza/non presenza” della squadra stessa.

Dalla stagione successiva, grazie ad un ritrovato feeling con la federazione italiana, il Milano tornerà a disputare il campionato di serie A. Sulla panchina si siederà Adolf Insam, in uscita dalla nazionale.

Udine come Minneapolis, pronta per il Winter Classic

Non c’è tanto da sottolinearlo, è praticamente una legge non scritta, ma con l’avvento del nuovo anno arriva pure il Winter Classic della NHL. Lo si potrebbe paragonare alla particola che viene data in luoghi religiosi: lei si presenta, ti viene proposta e sei te a decidere se prenderla o meno. Questo evento sportivo è visto da alcuni come un qualcosa di divertente e da altri come un qualcosa che rovina il pacchetto. Viene sempre da chiedersi perché un qualcosa di così caratteristico possa risultare brutto, poco appetibile, ma al mondo esistono pure persone che considerano gli arachidi per nulla mangiabili. Come esistono le persone che mangiano la particola e quelle che non la mangiano. Poi ci sono quelli che nemmeno vogliono vederla la particola, perché impegnati a vedere il Winter Classic. Eccomi, presente.

Come ogni dodici mesi, anche se questa pandemia ha leggermente sfalsato i tempi e le routine, mi avvicino all’evento in un modo ben preciso: fino ad una settimana prima non ne voglio sapere nulla, evito di informarmi pure sulle divise che utilizzeranno; nei primi giorni dell’ultima settimana mi avvicino a gattoni, creando un quadro d’insieme ed informandomi il giusto; a tre giorni dall’evento inizio ad essere tedioso, trattando l’argomento con qualsiasi tipo di persona che incontro, ignara di cosa sia l’hockey stesso; il giorno dell’evento, massimo quello prima, recupero qualcosa del passato sull’argomento. Quest’anno, andando fuori dagli schemi, ho recuperato l’Heritage Classic del 2003. Quindi sono andato molto indietro nel tempo, perché il WL esiste dal 2008. Perché quella partita del 2003? Fu la prima volta in cui la NHL, ispirata da una partita del college, decise di far disputare una gara della regular season all’esterno. Al Commonwealth Stadium di Edmonton, con temperature vicine ai -20°C, gli Oilers ospitarono i Canadiens. Prima della partita vera e propria, nel pomeriggio venne disputata una sfida tra vecchie glorie. Al suo interno, come si può ben intuire, c’era anche Wayne Gretzky: ritiratosi da quattro anni, tornò ad indossare la maglia degli Oilers dopo ben quindici anni.

Wayne Gretzky, 42enne in quel 2003, al primo evento esterno della storia della NHL

Visto con l’occhio di vent’anni dopo, quell’Heritage Classic del 2003 non trasmette molto. Mi spiego: all’epoca, essendo stato il primo, aveva catturato l’interesse di tutti, mentre ora, con un’infinità di WL, Outdoor Series, ecc visionate, è difficile provare interesse per quel tipo di spettacolo. Arduo andare oltre i primi 20′ di gioco, a meno che non si voglia percepire il freddo dell’epoca e le bestemmie dei giocatori per il freddo stesso. Per i primi 5′ di gioco, la CBS aveva cercato di cambiare angoli di camera, seguendo la partita da bordo ghiaccio e con le riprese ad altezza balaustra. Un vero disastro, non si capiva nulla di quanto stava succedendo e non riuscivano a seguire bene il disco, pur essendosi presentato un ritmo di gioco non molto dinamico. E’ imbarazzante, quasi vergognoso, provare questo tipo di pensiero: in quel ghiaccio c’erano Saku Koivu, Ryan Smith, Andrei Markov e Shawn Horchoff, tanto per citarne alcuni. Vere e proprie leggende, trattate come pezze da chi sta scrivendo, per il semplice motivo che la velocità di gioco del giorno d’oggi fa risultare noiose gare di vent’anni fa. Dannata velocità, dannata evoluzione, dannata incompetenza di chi scrive.

Ora, giusto per demoralizzarvi, provate a spostare tutto quanto nella bella penisola italiana. Immaginatevi di organizzare lo stesso evento, nello stesso giorno, diciamo ad Udine. Perché la città friulana? Minneapolis, dove verrà disputato il WL del 2022, risulta essere la 46a città più grande degli USA; Udine, con i suoi 98.156 abitanti, è la 46a più popolata d’Italia. Un paragone che regge, non vedo alcun tipo di problema. Come stadio prendiamo la Dacia Arena, con i suoi 25.000 posti a sedere. Nel mezzo facciamo il ghiaccio e poco altro, anche perché lo spazio è contenuto e sarebbe come voler mettere quattro lavatrici in uno sgabuzzino. Lo show sarebbe caratteristico, su questo non ho alcun tipo di dubbio, ma ci sarebbe un problema: la disponibilità di fare un evento il primo dell’anno. Con la mentalità italiana, nonostante la grande disponibilità mediatica, salterebbe tutto. Ve lo immaginate un Cortina vs Fassa ad Udine?

Un valore alla maglia giallonera di Keith Seabrook

Mi trovo leggermente in difficoltà, perché credo sia il terzo o quarto articolo che dedico alla squadra rappresentante la città di Brunico. Non essendo del luogo e fan della squadra, la cosa risulta alquanto atipica. Anche perché non è una compagine che nutre simpatie esterne al proprio luogo di origine, almeno questo è quello che ho sempre colto, quindi mi viene da pensare che abbia dei geni brunicensi. Avete colto bene cosa sto pensando e non dicendo espressamente: il Val Pusteria mi è sempre stato simpatico. Non ho mai provato disprezzo per nulla tranne per il loro modo di usare l’italiano: abusato da arrabbiati, quando devono fare uso di parole scurrili, e dimenticato in tutte le altre situazioni. Una cosa che fa ridere, voluta presumo, ma pur sempre ridicola.

Foto personale, non devo dichiarare alcun tipo di appropriazione indebita

Come si può notare dalla foto, recentemente mi è capitato di visitare la città in questione. Città per modo di dire, come tutti sanno, perché nel giro di un paio d’ore devi sederti in un bar per fare passare il tempo. Oppure vai a pattinare allo stadio, non c’è molto altro da fare se vuoi restare vicino al centro abitato. L’Intercable Arena è molto bella, anche perché è difficile che una cosa nuova di palla possa risultare brutta. La seconda pista esterna, inaspettatamente al suo posto, cattura la visita giornaliera. Di sera, con la partita sullo sfondo, non possiede lo stesso fascino. Bella, intrigante, ma voglio parlare di un’altra cosa: Keith Seabrook. Girando per lo stadio, mi sono ricordato di avere una maglia del giocatore in questione. Trovando uno dei maggiori collezionisti di maglie intento a spillare birra dietro un banco, mi è sorta una saggia domanda:

Quanto diavolo varrà la maglia di Keith Seabrook?

Si tratta di una maglia usata dal giocatore, pregna del suo talento. Esagero con il mito, così sale ancora di più di valore. Che sia usata è vero, tanto che non volendo quella versione me ne venne spedita un’altra di Iannone. Così, per dire. Però, se ci pensate bene, quella maglia potrebbe valere dei soldi. Seabrook giocò solo diciotto partite con i gialloneri, durante la stagione 2012/13, per poi, alla fine dei conti, ritirarsi dall’attività sportiva per iniziare a fare il venditore di case o qualcosa del genere. Era forte, per il nostro campionato era un difensore di estremo livello, ed è pur sempre il fratello di una leggenda dell’hockey come Brent. Grazie anche ad una veloce ricerca del calendario 2012/13, mi sono reso conto di averlo visto in tre occasioni: la prima stagionale all’Odegar di Asiago; una trasferta, con rete, ad Alleghe; l’ultima partita giocata in quel di Cortina. Il tempo sbiadisce i ricordi ma era magnetico, stecca destra, e veniva da anni in AHL. A conti fatti ho visto il 16,7% delle partite che ha disputato in Italia. Si prese una pausa dall’hockey, che divenne effettivamente un ritiro, il giorno dopo la trasferta a Cortina. Era il 18 Novembre 2012. La cosa che ho trovato sempre simpatica è che il fratello, in NHL, ha creato una top line difensiva con un giocatore che aveva il cognome uguale al nome del fratello.

Atipico collegamento tra cimbro e ladino

Ogni mattina mi alzo ed una delle prime cose che faccio è controllare i movimenti di mercato. Cosa che ripeto a pranzo, nel pomeriggio e prima di cenare. Una routine, come adagiare le natiche su di un ovale in plastica. Effettuando la routine, spesso tornano alla mente ricordi. Di certi giocatori ho un ricordo molto sbiadito, di altri uno vivido come se fossero passate poche ore e, quando si presentano movimenti di mercato tra compagini italiane, alle volte collego le due da un evento ben preciso. Forse frivolo, inutile, ma in un personale immaginario indelebile.

In mattinata ho notato che Steven McParland è passato dall’Asiago al Fassa. Giocatore prolifico, utile, di un certo livello per la Alps. Detto ciò, tali squadre le collego per un qualcosa avvenuto durante la stagione 2011/12. Era una partita di stagione regolare, quando Jason Pitton decise di stendere Robert Schnabel. Il canadese non era una piuma, viaggiava sul metro e novanta per novanta chilogrammi, ma il ceco era una trave e con molta massa in più. Ricordo la facilità con cui il secondo alzò bandiera bianca, però non ricordo se per instabilità sul ghiaccio o se per effettiva paura ed inferiorità.

Un Jason Pitton soddisfatto del proprio operato (foto scovata nel web)

Sorge spontanea una domanda: “Che fine hanno fatto questi due”? Il nativo di Praga giocò altre due stagioni in Inghilterra, con il Manchester, per poi appendere i pattini al chiodo e finire a fare chissà cosa. Il canadese, dopo essere andato in Scozia per una stagione, tornò oltreoceano e continuò a giocare in leghe minorili. Dal 2015 la sua carriera ha subito un blocco, però già in due occasioni (2017 e 2019) è tornato a giocare per qualche partita.

Il primo Cortina nel nuovo panorama multinazionale

La taverna è un luogo in cui, oltre ad esserci una temperatura tendente allo zero, si possono trovare oggetti che pensavi di aver gettato nell’immondizia o nell’ecocentro più vicino a casa tua. In questo periodo atipico, dove le uscite dalle mura domestiche le si possono contare sulle dita di una mano, ci si può permettere di fare cose che di solito non si fanno. Una di queste è semplice e genuina: rovistare nel passato. Così, aprendo scatoloni impolverati, mi è capito di trovare vecchi block-notes in cui annotavo resoconti di partite visionate dal vivo. Sono incappato in un breve recap di un Cortina – Val Pusteria del 2012, quando in Trentino giocò per una manciata di partite Keith Seabrook. Non è tanto quello che mi ha colpito, bensì un pensiero che avevo annotato ad inizio pagina. Un pensiero che ho sempre avuto, che mi ha sempre strappato un sorriso:

“Pur essendo vuoto, pur sembrando di essere il solo all’interno di esso, l’Olimpico di Cortina è lo stadio con più carica emotiva della penisola italiana”

La magia di quello stadio non si può spiegare in quattro parole. Ragionando velocemente su cos’è ora il Cortina, mi sono ricordato che durante la prima stagione dell’Alps Hockey League (2016/17) fu in grado di raggiungere la semifinale, poi persa in quattro partite dopo aver vinto gara uno a Collalbo, contro i futuri campioni del Renon. Dopo essermi ricordato che quella era anche l’ultima stagione da giocatore di Nicola Fontanive, poi emigrato negli States per questioni amorose e lavorative, ho deciso di analizzarla, con i pochi mezzi a disposizione, quella particolare stagione ampezzana.

Foto personale e di repertorio di un derby veneto tra Cortina ed Asiago. Nella foto noto un Layne Ulmer in maglia giallorossa. Anno? Bella domanda

Gli scoiattoli disputarono una regular season in cui flirtarono fino all’ultimo con un piazzamento tra le prime sei, non riuscendoci anche a causa delle troppe partite perse all’overtime. Furono ben cinque, su trenta, e così si trovò in un limbo in cui il settimo posto sarebbe stata una semplice formalità tramite il girone di qualificazione: il Feldkirch arrivò sesto con 55 punti, il Cortina settimo con 51 ed il Zell em See ottavo a ben 13 punti dagli ampezzani. Il girone di qualificazione non regalò sorprese ed il Cortina incontrò il Val Pusteria ai quarti, buttandolo fuori in tre partite molto tirate. Quest’ultima sì che fu una sorpresa, anche perchè i lupi uscivano con la miglior difesa dalla stagione regolare. Dopo un’altra sorpresa nella prima partita della semifinale, vinta 4-2 fuori casa, con il Renon non ci fu storia: 5-2, 7-1 ed un più decoroso 4-2. Quel Cortina era allenato da Drew Omicioli, ex attaccante di Bolzano ed Asiago all’inizio del nuovo millennio, alla prima esperienza europea come capo allenatore. Lo stesso allenatore optò per due stranieri offensivi ben precisi: Zack Torquato, che per tutto il periodo estivo aveva subito la corte dell’Asiago, e Connor Leen. I due venivano da una stagione disputata insieme, ma il secondo abbandonò dopo poche partite, tornando negli States, ed al suo posto arrivò uno dei giocatori più forti passati per Cortina nel corso degli ultimi anni: Riley Brace.

Foto tratta dalla pagina ufficiale Facebook del Cortina

Entrando nel mondo dei dati, Riley Brace fu l’attaccante con il miglior PPG (points per game) della RS dopo il solo Krys Kolanos dell’Asiago: 2,05 il primo e 2,44 il secondo. Mi permetto di modificare la classifica e farla tenendo conto di un numero minimo di partite, direi almeno una ventina. L’ampezzano ne fece 22, mentre l’asiaghese solo 9: ciò non toglie che l’ex NHLer, pur giocando a rallentatore, fece scendere la bava all’Odegar per il puro talento che possedeva. Detto ciò, in una classifica modificata, sia Brace che Torquato rientrano nella top tre: Brace con il già citato 2,05 in 33 gare; Jason Williams del Fassa con un 1,70 in 22 partite; Torquato con un 1,69 in 29 gare disputate. Questi dati diminuirono nei PO, con Brace (1,57) secondo dietro un Fontanive (1,75) che volò al primo posto ed offrì una bella lettera d’addio all’hockey giocato. Come produzione offensiva da RS, il Cortina piazzò cinque giocatori nei primi quaranta posti: Torquato (27+22), Brace (17+28), De Biasio (difensore, 8+31), Fontanive (13+23) e Caletti (9+26). La produzione offensiva seguì il corso della classifica dei punti, tanto che gli ampezzani ebbero il settimo attacco più prolifico, mentre la difesa fu la quinta migliore con 76 reti subite. In quella difesa la coppia di stranieri era formata da Tanner Burton e Jordan Ciccarello, mentre il giovane Tobias Brighenti disputò la stagione della conferma dopo l’ottimo impatto dell’anno precedente. Pur incappando in moltissime penalità, tanto da essere sempre una delle peggiori durante tutta la stagione, ha avuto uno dei migliori PK del campionato: 87% in RS (terzo, dopo Val Pusteria e Gardena); 86,8 nel QR (il migliore); 85,7 nei PO (terzo). In poche parole faceva volare le stecche ma poi si difendeva bene, anzi, sfruttava molto bene le ripartenze tanto che fu in grado di siglare la bellezza di 11 reti in situazioni di inferiorità numerica. Il PP è sempre stato sotto la media, parliamo di un nono/decimo posto, sia in situazioni (la quarta peggiore della AlpsHL) ed un valore di realizzazione poco inferiore al 17%. L’anno successivo, nonostante alcune partenze di rilievo, si cercò di fare il salto di livello ma non si presentò la giusta chimica.

Un Franceschini degli anni settanta

In giornata mi sono perso, completamente perso, dietro la storia riguardante Jim Franceshini. Smarrito come poche volte, dove l’orologio non esiste più e la voglia di trovare maggiori informazioni ti porta a spulciare pure dietro armadi che non sposti da sette decenni. Smarrito non è un termine utilizzato a caso, lo capirete. Non ero mai incappato in una delle storie più assurde legate al nostro panorama hockeystico, con protagonista un canadese più unico che raro. Ovviamente, impossibilitato a trovare una foto di tale monumento sociale tramutato in leggenda, mi sono orientato su di un altro personaggio che, in egual modo, può strappare un sorriso. Che ci sia un nascosto legame padre-figlio?

Un Franceschini errato: Dario (Foto tratta dal sito ilmessaggero.it)

Siamo all’inizio degli anni ’70, in qualche remota zona del Trentino. Ipotizzo che il pullman in grado di trasportare la squadra del Torino, al tempo in gravi condizioni e militante in serie B, sia stato in grado di evitare il malcapitato. Non sarà andata sicuramente così, l’avranno trovato in un altro contesto, ma voglio immaginarmela così. Quel Torino dire che era in gravi condizioni vuol dire essere benevoli: persa la serie A, le finanze ed il palazzetto nell’anno precedente per il semplice fatto che la società che aveva in mano il palazzo faceva più soldi affittandolo per mostre automobilistiche. Un disastro, con una squisita salsa di contorno, com’è da sempre tale sport in questa bella penisola.

Torniamo in Trentino. La leggenda narra che tale Jim Franceschini aveva trovato rifugio in quella zona, senza alloggio e con un digiuno che andava avanti da qualche giorno. Vagabondaggio o esilio forzato? A quanto pare viene trovato da Rolando Cicogna, pioniere dell’hockey nel territorio piemontese, in condizioni a dir poco di povertà. Lo aiuta e in un secondo momento scopre che è canadese ed afferma di aver giocato ad hockey su ghiaccio. Non si lascia mai un canadese per strada, quindi si accordano per una specie di contratto che offriva vitto, alloggio e poco più. L’unico pensiero del nostro Jim, giustamente, era quello di mangiare: due piatti di pasta un’ora prima della partita, divorati, e poi pattini ai piedi per la prima ufficiale con la maglia del Torino. Ingaggio, due pattinate e vomita tutto sul ghiaccio, per poi correre dritto negli spogliatoi. Leggenda, in pochi secondi.

Il vero problema è che tale leggenda non aveva proprio un ottimo feeling con tale sport, almeno così viene affermato da fonti (affidabili o meno?). Oltre ad avere una clausola sul contratto che gli fruttò quasi zero, cioè più reti segnava e più guadagnava, in una partita fece un qualcosa che entrò negli annali: non sapremo mai se per divertimento o per effettiva poca conoscenza delle regole, affrontò un rigore tirando il disco da centro ghiaccio. Il risultato fu deplorevole, come la sua stagione 1970/71 e della squadra stessa (ultima, a zero punti, nel proprio girone di serie B). “La gazzella delle Alpi”, così veniva denominata, scomparì a fine campionato senza farsi più vedere.

Per un solo anno, quando il nostro Jim tornò alla ribalta per la stagione 1972/73. Altrincham è una piccola città inglese poco più a sud di Manchester, con una squadra hockeystica nata all’inizio degli anni ’60. JF restò in questo luogo dal 1972 al 1979, se badiamo alle sole statistiche di Eliteprospects, diventando una vera e propria leggenda. Sorge spontanea una questione: era un gran bel ciarlatano o il livello dell’hockey made in England era pari ad una tavola di legno in decomposizione. Non credo possano esserci altre opzioni.

Veni, vidi e mannaggia la miseria non vici

Nella vita puoi conquistare l’Annapurna per sette volte in sette giorni, senza viveri o in equilibrio su di una sola gamba, ma se per un singolo giorno non rimembri come legarti le scarpe verrai ricordato sempre e solamente per questo ultimo fatto. L’umanità è subdola, ricordatevelo, nel caso vi servisse l’aiuto di qualcuno mentre state cercando di attraversare la strada con sei borse della spesa e seimila nodi di vento contrario. L’essere umano ricorda poco le cose belle, molto quelle brutte, inutili e di contorno. Di cosa sto parlando? Dove voglio andare a parare? In verità non ho un piano ben preciso di come scrivere due righe riguardanti Armin Helfer, quindi avendo in mente la solita manfrina riguardante la sua incapacità di portare alla vittoria la compagine brunicense ho lasciato andare il cervello verso lungaggini inutili ed inesplorate. Un intro senza senso che lo troverà in un secondo momento, forse.

Foto tratta dal sito: sportnews.bz (credit: Foppa Iwan)

Senza avere ancora un’idea di come collegare l’intro al resto dell’articolo, parto con il dire che la figura dello zio Armin mi ha sempre fatto abbastanza ridere. Essendo in simbiosi con il mondo dell’hockey su ghiaccio da poco più di tredici anni, l’ho sempre visto legato alla squadra giallonera, anche se ricordo bene il suo periodo fuori dai confini italiani, e questa cosa mi ha sempre strappato un sorriso. Non tanto per soddisfazione personale sportiva, figuratevi cosa me ne importa se uno vince o meno qualcosa, ma per semplice soddisfazione personale da essere umano pervaso da sarcasmo. La carriera di un giocatore così forte, rapportata all’ultimo decennio, potrebbe venire raccontata in un lungometraggio interpretato da Renato Pozzetto: tante volte vicino al risultato con conseguente tracollo epocale, del tipo che si lasciano andare le braccia verso il pavimento e le palpebre verso il soffitto, per poi ritrovare fiducia e spirito vincente come non mai al solo fine di andare vicino al risultato con conseguente tracollo epocale, del tipo che si lasciano andare le braccia verso il pavimento e le palpebre verso il soffito, per poi ritrovare fiducia e spirito vincente come non mai, ecc. Non è un gioco di copia/incolla andato male, bensì un tentativo telematico atto a simulare il continuo sali e scendi emotivo di Armin Helfer nel corso delle ultime undici stagioni da giocatore. Fa ridere se badi al sarcasmo interiore; provoca tenerezza, vista la qualità del giocatore e la sua voglia di mantenere la fede verso determinati colori, se badi al lato più professionale nell’analisi sportiva.

Quindi, a distanza di tutte queste righe, perché la presenza di quell’intro? Il senso c’era già dal principio e sta nel fatto che tale giocatore, nonostante tutte le qualità (visione di gioco, di posizionamento, un tiro di una certa importanza) e le vittorie (cinque scudetti in sei anni di dominio milanese nel primo decennio del terzo millennio), verrà ricordato/sbeffeggiato nell’ignorante mondo dell’hockey su ghiaccio come quel capitano/uomo bandiera che non è mai stato in grado di far vincere la squadra della propria città. E questo dato di fatto, mettendo nel cassetto per pochi istanti il sarcasmo, riempie di tristezza il cuore di un appassionato che non vede tale sport decollare.

Una spruzzata di Silicon Valley a coprire la penisola – #1

Foto tratta da: Forbes.com (con l’aggiunta di una forte dose di ironia e self-made pittoresco)

Pronti, partenza e via, andando dritti al punto: nell’anno in cui si entrò nella Alps Hockey League, cosa sarebbe successo se il movimento italiano avesse deciso di attuare un’altra politica e messo in pratica un epocale rinnovamento tramite il Draft? Siete in grado di immaginarvi uno scenario in cui è fondamentale rinnovarsi, mettersi in gioco e ricostruire in pura salsa italiana? La nostra amata federazione è stata in grado di dimostrarci, in più di un’occasione, di essere in grado di contenere qualsiasi tipo di problematica. Un esempio per tutti, non potete continuare a dubitare della loro buona volontà.

Partiamo con calma, stilando alcune linee guida per l’approccio con il mondo draftesco (tra parentesi delle visioni rapportare con il sistema italiano)

  • Ci sono sette giri, quindi sette scelte annuali per ogni squadra, a meno che non siano state scambiate per altri giocatori, altre scelte, altri obiettivi. Il mondo in questione è troppo vago, ci sono troppe varianti, quindi ipotizziamo che nell’anno zero ogni squadra si tiene le proprie scelte e stop (Siamo sicuri che tutte le squadre italiane sarebbero in grado di scegliere sette giocatori? Chi? Che giocatori? Cioè, potrebbero prendere anche il Jack Hughes della situazione, nessuno lo vieterebbe, anche se bisognerebbe convincerlo a venire a giocare nella penisola. Scendiamo dalle nuvole e pensiamo ad un Draft con l’attuale sistema italiano. Dai, in quanti sarebbero in grado di trovare almeno due validi prospetti italiani per ogni squadra? Probabilmente si andrebbe a pescare nella quinta lega finlandese)
  • Chi non disputa i playoffs partecipa alla lotteria per aggiudicarsi la prima scelta, dove le % dell’ultima ruota del carro sono maggiori rispetto alla nona classificata. Chi disputa i playoffs riceve scelte a scalata in base al risultato finale, quindi chi vincerà il campionato andrà a pescare con l’ultima scelta (Questa è una delle realtà che farebbe più ridere. Bisognerebbe spiegare a noi italiani che chi arriva ultimo ha più probabilità di ricostruire per il futuro, quindi non è detto che se vinco per tre anni di fila vincerò anche per i successivi tre anni, anzi, potrei trovarmi in fondo alla classifica dopo sei anni. La testa di noi italiani esploderebbe e ci sarebbero persone che vagabondano per le autostrade di mezzo paese. Anche dopo decenni la mentalità sportiva italiana non sarebbe in grado di capire il quadro d’insieme, siamo stati troppo abituati ad un concetto ben preciso: più vinci, più domini, più resti in alto)
  • Italiani eleggibili per il Draft: tutti quelli che hanno compiuto 18 anni entro metà Settembre e 20 non oltre la fine dell’anno (Cioè, bisognerebbe allevare ragazzi che a 18 anni sarebbero già pronti per lottare nel massimo campionato italiano. Non comparse per qualche stagione, forse una potrebbe andare bene. Sia a livello fisico, tecnico e professionale. Seriamente. Prendiamo gli esempi di Ronny De Zanna e di Marco Magnabosco: entrambi classe 1995, già molti anni ad alti livelli, da quanti vengono considerati giocatori maturi e non “ancora giovani”? E’ la nostra mentalità, sotto i trenta sei ancora immaturo)
  • Se il giocatore draftato non viene firmato entro i 20 anni diventa libero, quindi in grado di scegliere qualsiasi tipo di squadra, di campionato, di contratto e di paese (Con le regole di affiliazione italiane, questo punto farebbe deflagrare palazzine, parchi pubblici e Chiese. Non dico nulla, allego una foto qui sotto. A voi le risate, pensando a cosa succederebbe)
Screenshot tratto dalle “Norme organizzative federali annuali” (fisg.it)
  • Se una squadra non firma il giocatore scelto al primo turno, rendendolo quindi libero, viene ricompensata (la squadra) con una seconda scelta nel successivo Draft. Tale avvenimento porta le altre squadre ad una scalata, quindi se il Cortina ha la terza scelta del secondo giro passa alla quarta (Qui, forse, non succederebbe nulla e si potrebbe ragionare con estrema tranquillità)

L’avevo anticipato: alcune linee guida per questo primo viaggio mentale sull’argomento. Fermiamoci, altrimenti il cervello potrebbe esplodere ed imbrattare le pareti di casa.

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